Rubo il titolo a Cesare Pavese il quale pensava che l’estate fosse il tempo del mito; un autore che coltivava l’assoluto di un giorno qualsiasi, le voci magiche di donne sconosciute, lo sguardo dell’orizzonte come fossero gli occhi di un dio, che attribuiva umori alla natura, che scambiava la morte con un ricco faticoso raccolto, lui che fondeva la realtà di un dolore segreto con il tempo del destino incompiuto.
Cesare, io vorrei prendere questi giorni come specchio di un bisogno simbolico, il senso di un altrove, di uno spazio riservato, di una fantasia che trasforma il frastuono in un canto liberatore, di un sussurro che gareggia con i lievi turbini di un rio.
Questi pochi, estesi giorni d’agosto che l’imperatore romano concedeva, insieme alle libertates decembris, consapevole che anche il potere richiede una ricreazione per il popolo, la vittoria temporanea di una fantasia che capovolga le consuetudini e le obbedienze.
Feria d’agosto rende fertili, lente, dense e colme di amore le ore sottratte alla convenienza e alle necessità.
Feria di agosto è il tempo della nostra rivincita, del glorioso scetticismo con cui riempiamo spiagge, tavolate e passeggiate, dove il poco diventa sublime, perché è gioia per incontri festosi.
La felicità di Ferragosto segue le stelle cadenti, fa un tutt’uno con le scappate da casa, sa di liberazione, si commuove di attimi, si accontenta di istanti rubati, di spazi sottratti, sogna perché è religiosa e proletaria, artistica e rivoluzionaria, povera e sterminata, unica ma ripetibile.
Dacci il nostro pane moltiplicato da un Ferragosto senza orari, illuminato da un bisogno di amore, di confidenza, di gioia, di cielo e di mare, per ritrovare prima di tutto noi stessi, dopo essersi felicemente smarriti, noi, io e te e gli altri, limitati e divini come i giorni di cui ci è dato gioire.
Per finire ecco qualche parola di Feria d’agosto, la declamazione tragica e sottile di Cesare, il nostro irripetibile profeta:
«Una notte di agosto, di quelle agitate da un vento tiepido e tempestoso, camminavamo sul marciapiede indugiando e scambiando rade parole. Il vento che ci faceva carezze improvvise, m’impresse su guance e labbra un’ondata odorosa, poi continuò i suoi mulinelli tra le foglie già secche del viale. Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvisamente, tanto che mi fermai».
La letteratura è utopia, Cesare Pavese scrittore è e rimane il sacerdote di un sogno.
Un’ utopia reale a piccoli sorsi…