domenica 27 Luglio 2025

“Ondeggia, oceano”, una poesia di George Gordon Byron (1812-18)

Ondeggia, Oceano nella tua cupa
e azzurra immensità.
A migliaia le navi ti percorrono invano;
L'uomo traccia sulla terra i confini,
apportatori di sventure,
Ma il suo potere ha termine sulle coste,
Sulla distesa marina
I naufragi sono tutti opera tua,
è l'uomo da te vinto,
Simile ad una goccia di pioggia,
S'inabissa con un gorgoglio lamentoso,
Senza tomba, senza bara,
senza rintocco funebre, ignoto.

Sui tuoi lidi sorsero imperi,
contesi da tutti a te solo indifferenti
Che cosa resta di Assiria, Grecia, Roma,
Cartagine?
Bagnavi le loro terre quando erano libere
e potenti.
Poi vennero parecchi tiranni stranieri,
La loro rovina ridusse i regni in deserti;
Non così avvenne, per te, immortale e
mutevole solo nel gioco selvaggio delle onde;
Il tempo non lascia traccia
sulla tua fronte azzurra.

Come ti ha visto l'alba della Creazione,
così continui a essere mosso dal vento.
E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era di farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.

E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
Perché ero come un figlio suo,
E mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
E giuravo sul suo nome, come ora.

Il romantico non abita il mondo, abita la natura. Di conseguenza detesta i confini che risultano da guerre o da convenzioni. Li odia ma li teme perché segni di un oltraggio sovrumano.

L’infinito stesso di cui cantava Leopardi, o gli sfondi lontani pittorici messi in poesia dalle sorelle Brönte in quegli anni, venivano definiti come «mare», oceano indifferenziato capace di contenere insieme il tutto e la morte.

La morte, anch’essa tuttavia, non come fine ma come accesso a un mondo senza limiti, e quindi senza tempo. Un naufragare della vita quale navigazione. La morte, espressione dell’indicibile poetico, della passione totalizzante dell’amore, che il melodramma e la canzone nell’ Otto e Novecento avrebbero conosciuto benissimo.

Il poeta figlio delle onde, del loro gioco selvaggio, sa che l’eros è un incantesimo immortale, e quindi esprime il suo giovane piacere, la sua visione poetica come abbandono, come attrazione verso l’ignoto.

L’intenzione romantica non crede a un «tu» davvero dialogico, fisico, umano. Sa che i suoi sentimenti deboli e immensi urtano contro le leggi della storia, sormontano ogni fatica umana, rendono religioso e insieme tremendo ogni sguardo.Così si sarebbe espresso, cinquant’anni dopo, Victor Hugo in esilio sulla odiosamata isola di Guernsey, all’ inizio della sua epopea romanzesca della pesca come sfida: Les travailleurs de la mer, I lavoratori del mare.

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Gian Paolo Caprettini

Ha insegnato all'Università di Torino dal 1975 al 2013, dove è stato professore ordinario di Semiotica e Semiologia del Cinema, ha diretto Extracampus, la TV dell'Università, e il Master di Giornalismo. I suoi libri più recenti: Scrivere come sognare (Cartman), Vertigini dell'immaginario (con A. Bálzola, Meltemi), Complice la poesia (L'Indipendente), Dizionario della fiaba italiana (Meltemi).

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