Emanuela Loi ha ventiquattro anni ed è nata a Cagliari. Avrebbe voluto fare l’insegnante, ma nel giugno ’92, poche settimane dopo la strage di Capaci, entra nella scorta di Paolo Borsellino. Sarà la prima donna poliziotto a morire in servizio e l’unica a sorridere nella foto scattata poche ore prima dell’inferno. Alle 16:58 del 19 luglio 1992, Borsellino suona il campanello di casa della madre in via D’Amelio, civico 21. Qualcuno, a distanza, osserva la scena. Con un telecomando, vengono azionati novanta chili di tritolo che dilaniano asfalto e corpi.
Tra la polvere e le fiamme, un oggetto diventa subito la preda di mani frettolose: l’agenda rossa da cui Borsellino non si separa mai. È custodita nella sua inseparabile borsa di cuoio, rimasta sul sedile posteriore dell’auto blindata. Nessuno sa con certezza cosa vi sia annotato, ma tutti sanno cosa rappresenta: la verità che non deve venire a galla, i dialoghi più intimi con Giovanni Falcone, le piste e i nomi che avrebbero ricondotto tanto a uomini di mafia quanto a colletti bianchi dello Stato. Almeno due testimoni vedono un uomo in abiti civili chinarsi e raccogliere una borsa in pelle marrone: è quella del magistrato. Quella borsa ricomparirà sulla scrivania di Arnaldo La Barbera, ufficiale di Polizia e, senza che la magistratura lo sapesse, informatore dei servizi segreti.
Domenica, 19 luglio 1992
L’Italia del 1992 è quella di Tangentopoli, di Roberto Baggio e Totò Schillaci, ma anche quella delle stragi, dei misteri, delle convergenze oscure. Cosa Nostra si sente tradita: lo Stato ha stretto il cappio, e Falcone ne è l’esempio. Il 23 maggio, un’esplosione squarcia l’autostrada a Capaci. Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta muoiono sotto 500 chili di tritolo. Quando l’autostrada deflagra, Paolo Borsellino è nella bottega di Paolo Biondo, suo barbiere di fiducia. Poco dopo le 18, una telefonata di un collega lo avverte dell’attentato. I loro omicidi avverranno a 57 giorni di distanza. Durante questo lasso di tempo, Borsellino lavora senza sosta. Incontra pentiti, chiede documenti, collega piste. Le sue verità finiscono scritte in un’agenda rossa che porta sempre con sè.
Domenica, 19 luglio 1992. Nel pomeriggio, come ogni domenica in cui è a Palermo, Borsellino ha in programma una visita alla madre, che abita in Via Mariano D’Amelio, nel quartiere Fiera. Attorno alle 16:30, il convoglio che lo accompagna si mette in movimento: davanti la “staffetta” guidata da Vullo con Li Muli e Traina, al centro la Croma di Borsellino, dietro segue Catalano con Loi e Cosina. Via D’Amelio è una strada breve e chiusa, incassata tra palazzi alti e troppo vicini. Molte sono le auto parcheggiate a spina di pesce.
Alle 16:52 la Croma si ferma a pochi metri dal civico 21. Borsellino fa pochi passi verso il palazzo. A pochi metri di distanza, è parcheggiata un’utilitaria color rosso amaranto. Nessuno sa che in quel cofano ci sono novanta chili di Semtex-H, un esplosivo militare al plastico. Borsellino ci passa accanto per raggiungere il citofono. Lo suona e oltrepassa il cancelletto d’ingresso. Il codice per sbloccare la sicura della bomba viene inserito dal telecomando radio a lungo raggio. Alle 16:58, Giuseppe Graviano, nascosto dietro un muretto in fondo alla stessa via, aziona il detonatore.
L’onda d’urto devasta la strada, disintegra le auto, fa scoppiare le finestre fino a centinaia di metri di distanza. Il cratere è di almeno 2,10 metri di diametro per 33 centimetri di profondità. Il fumo delle fiamme, nero e denso, è visibile da quasi ogni angolo di Palermo. Borsellino muore all’istante. Insieme a lui perdono la vita Agostino Catalano, vice sovrintendente, e gli agenti Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi e Vincenzo Li Muli. Solo l’agente Antonio Vullo, che non abbandona i mezzi ed impegnato nelle manovre di parcheggio, sopravvive. Resti umani vengono rinvenuti al primo e al secondo piano dei palazzi circostanti.
Nelle prime perizie sulla scena, tra una Giulietta e una Fiat Uno, la polizia scientifica trova un motore bicilindrico. È l’unico a non avere accanto la carcassa dell’auto da cui proviene. Tutti gli altri rottami parlano chiaro: motori e lamiere combaciano. Questo no. Dal codice di matricola si risale a quello del telaio: ZFA126A008781619. Negli archivi corrisponde a una Fiat 126, modello col bagagliaio nella parte davanti. È la chiave per ricostruire l’attentato. L’esplosivo fu nascosto nel vano anteriore della vettura che la deflagrazione ha polverizzato. Del posteriore, invece, resta qualche frammento color amaranto. Blocco motore e ruota di scorta erano stati rimossi per far spazio al tritolo. In quei minuti convulsi, la borsa di cuoio viene prelevata, passa dalle mani di Rosario Farinella, carabiniere e membro della scorta dell’allora deputato (e precedentemente PM al Maxiprocesso) Giuseppe Ayala, e consegnata a una persona non meglio identificata. Poi, tra le 17.20 e le 17.30, è nella disponibilità di un capitano dei Carabinieri, Giovanni Arcangioli, che venne ripreso mentre la portava all’uscita di via D’Amelio. La borsa ritorna poi inspiegabilmente nell’auto da cui era stata tolta, per poi essere prelevata dall’agente Francesco Paolo Maggi, che la porta in Questura, nella stanza del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera. Sarà lui, alto funzionario della Polizia, il regista del più grande depistaggio nelle vicende di mafia in Italia.
Rutilius, l’uomo dei due mondi
Nei giorni successivi alla strage di via D’Amelio, Palermo vive un clima di terrore e di sfiducia: magistrati e poliziotti in rivolta, la famiglia Borsellino che rifiuta i funerali di Stato, l’esercito pronto a intervenire. Nel contesto di quell’emergenza, serve trovare al più presto un colpevole dell’eccidio. Il prefetto Luigi De Sena (nonchè capo del SISDE – il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, l’allora servizio segreto civile italiano) assegna le indagini di polizia sulla strage al “gruppo Falcone-Borsellino”, guidato dal questore Arnaldo La Barbera. Nel giro di un mese, il responsabile della strage viene indicato in Vincenzo Scarantino, un 27enne analfabeta e piccolo spacciatore del quartiere popolare della Guadagna. Il racconto ufficiale lo dipinge come un professionista di Cosa Nostra: astuto organizzatore del furto dell’utilitaria usata per l’attentato, reclutatore di una piccola armata di criminali, partecipante di rilievo alle riunioni della Cupola.

Eppure, già la prima conferenza stampa del procuratore Giovanni Tinebra, capo della Procura di Caltanissetta incaricata a indagare sulla strage, lascia intendere quanto sia artefatta quella figura: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Nessuno lo sa, ma a imbeccarlo, anche attraverso violenze fisiche, sono proprio i poliziotti di La Barbera. Quest’ultimo, come si appurerà, solo qualche anno prima dirigeva il Gruppo Investigativo Speciale (GIS) per le stragi e prestato servizio al SISDE con il nome in codice di Rutilius. Un conflitto d’interessi non da poco, considerando che in Italia, quando si seguono indagini per la Magistratura (organo indipendente, dotato di poteri propri), il Corpo di Polizia Giudiziaria non risponde più al Ministero dell’Interno ma alla Procura di competenza. Ogni attività (intercettazioni, perquisizioni, sequestri, interrogatori) deve essere convalidata dal pubblico ministero e le forze dell’ordine inquirenti non possono ricevere ordini dai vertici politici. In sintesi La Barbera, che doveva indagare su presunte falle nei servizi di sicurezza, è lui stesso parte di quel sistema. Le indagini, quindi, procedono a colpi di omissioni.
Scarantino, terrorizzato, confessa, ritratta, denuncia pressioni subite dalla sua famiglia. Nei processi Borsellino 1, 2 e Ter, l’attendibilità di Scarantino viene tuttavia certificata da ottanta giudici fino alla Cassazione. In tre gradi di giudizio, le sue parole divengono prove definitive, sulla cui base molte persone vengono condannate all’ergastolo. Solo nel 2008 emerge la verità: Gaspare Spatuzza, killer di don Puglisi, si fa avanti come pentito e confessa di essere lui l’autore materiale della strage. Le sue dichiarazioni, supportate da riscontri puntuali, riscrivono la storia giudiziaria.
Dopo il processo di revisione e circa 18 anni di galera, gli uomini ingiustamente incarcerati sulla base delle parole di Scarantino vengono liberati. Le sentenze, prima tra tutte la “Borsellino Quater” del 2017, ci raccontano che il motore del depistaggio è stato proprio Arnaldo La Barbera, che da quel momento sale vertiginosamente i ranghi della Polizia: prima capo della squadra mobile di Palermo a questore di Napoli, poi prefetto e infine numero uno dell’UCIGOS, l’ufficio antiterrorismo della Polizia di Stato. Nelle motivazioni della sentenza è scritto nero su bianco che «Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Depistaggio frutto di «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».
Subito dopo la strage di via D’Amelio, viene convertito in legge il decreto 306 che introduce il regime sul “carcere duro” (articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario), fortemente promosso da Giovanni Falcone. È l’alba di un regime carcerario concepito per isolare il vertice mafioso, togliendo ogni possibilità di inviare ordini dal penitenziario. Allo stesso tempo, il Ministero dell’Interno lancia l’Operazione Vespri siciliani. Il 25 luglio 1992, centomila soldati dell’Esercito iniziano a installarsi nelle piazze, ai caselli autostradali e davanti alle prefetture dell’Isola. L’immagine è forte: plotoni di fanteria fiancheggiano le strade, i blindati vegliano sui centri urbani e i prefetti ricevono poteri straordinari per coordinare le forze di polizia. Uno scenario che si protrarrà fino al 1998.
Lo Stato infedele
Palermo, aprile 2015. Nell’aula del processo sono imputati gli ufficiali del ROS Mario Mori e Mario Obinu per la mancata cattura del super boss Bernardo Provenzano dell’ottobre 1995. A deporre è il colonnello Michele Riccio. Il suo racconto riporta indietro le lancette del tempo fino all’estate del 1993, quando la Direzione Investigativa Antimafia, guidata da De Gennaro, affida a Riccio la gestione di Luigi Ilardo. Si tratta di un mafioso che, avendo deciso di abbandonare la vita criminale, accetta di mettersi nelle mani dello Stato e infiltrarsi nelle pieghe di Cosa Nostra per svelarne i segreti. Ilardo, spiega Riccio, non si limita a disegnare la geografia interna dei boss: indica legami antichi e rievoca gli attentati attribuiti ai “settori deviati dello Stato” ben prima della stagione stragista mafiosa.

Tra questi, anche il fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, rispetto a cui lo stesso giudice parla di «menti raffinatissime», facendo il nome del numero 2 del SISDE, Bruno Contrada, ai suoi più stretti collaboratori. Lo stesso Contrada che la Procura di Palermo processa per concorso esterno, ottenendo, per i suoi accertati legami con gli uomini di Cosa Nostra, una condanna a 10 anni (giudicata nel 2017 ineseguibile e improduttiva di effetti penali dalla CEDU perché, a detta dei giudici, ai tempi il reato di concorso esterno non sarebbe stato adeguatamente “codificato” nell’ordinamento).
Ilardo racconta di aver fatto parte di quel contesto criminale vicino all’eversione di destra, intrecciato con apparati deviati. Il racconto viene però interrotto: il 10 maggio 1996, a Catania, Ilardo viene crivellato di colpi sotto casa. La Corte d’Assise stabilisce che l’omicidio è organizzato e portato a termine da Cosa Nostra catanese, suggerendo una fuga di notizie da ambienti istituzionali. L’omicidio avviene quando Ilardo era ormai pronto a entrare nel programma di protezione per i pentiti e a mettere ufficialmente a verbale le sue rivelazioni. Nel novembre 2015, al processo sulla Trattativa Stato Mafia, Riccio ribadisce che Ilardo ha visto nelle stragi del ’92-’93 l’eredità della stessa “strategia della tensione” degli anni di piombo, quando gruppi neofascisti e apparati deviati dello Stato seminavano il terrore per scardinare l’equilibrio politico del Paese.
Proprio mentre la legislazione antimafia si irrigidisce, subito dopo la strage di Capaci iniziava quella “improvvida” (ovvero sconsiderata) trattativa tra Stato e mafia portata avanti dai vertici del ROS dei carabinieri. Vi sono coinvolti Antonio Subranni (che poi si accerterà essere il responsabile del depistaggio sull’omicidio di Peppino Impastato, e che Borsellino seppe – ma non ve ne è ovviamente prova – essere “punciuto” da una fonte terza rimasta ignota prima di morire), Mario Mori (andato a processo per la disattivazione della sorveglianza del covo di Riina nelle ore successive al suo arresto e per la mancata cattura di Provenzano, quando lo stesso Ilardo glielo aveva consegnato su un piatto d’argento, uscendone assolto “perché il fatto non costituisce reato”) e il suo fidato braccio destro, Giuseppe De Donno. Questi scelsero di aprire un canale diretto di dialogo con Cosa Nostra tramite l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, in una prospettiva di do ut des — io do affinché tu dia. Mandati a processo per minaccia a corpo politico dello Stato, verranno condannati in primo grado a pene ingenti e poi assolti nei gradi successivi.
La mafia scopre Berlusconi
Nel 1992, scoppia Mani Pulite, inchiesta che scoperchia un enorme sistema di finanziamenti illeciti e travolge i principali partiti dell’arco costituzionale. La DC e il Partito Socialista collassano sotto il peso dei loro stessi scandali, mentre le piazze si riempiono di rabbia e speranza. È questo il momento di vuoto politico e di incertezza che, insieme alle stragi di mafia, segna il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e agevola Cosa Nostra – pur colpita al fianco dal Maxiprocesso – a concettualizzare un contrattacco politico di vasta portata.
Dopo la caduta dei tradizionali referenti, occorre condizionare la transizione politica e negoziare nuovi assetti di potere. Nasce così la “Seconda Stagione” di guerra ibrida, tra i cui cervelli figurano Matteo Messina Denaro e i fratelli Graviano, architetti delle stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze. Dieci morti e centinaia di feriti sono le vittime del “Grande Ricatto” ordito dai boss. Come per dire: «Voi cambiate pelle, noi restiamo ossa. Sediamoci, o sarà di nuovo sangue». Da qui, il papello di Totò Riina — un manuale di istruzioni dirette allo Stato per fermare le stragi: abolizione del 41-bis, benefici penitenziari e riforme che depotenzino il ruolo dei pentiti. Parallelamente alle bombe, cresce l’ambizione di intrecciare rapporti diretti con la politica. Messina Denaro e Leoluca Bagarella ideano così Sicilia Libera, un partito mafioso da costruire aggregando movimenti autonomisti meridionali con l’appoggio operativo di personaggi dell’eversione nera e della massoneria deviata.
Il progetto naufraga quando emerge la notizia della discesa in campo di Silvio Berlusconi alle elezioni del 1994. Il Cavaliere non è uno sconosciuto a Cosa Nostra, anzi: è la perfetta via d’uscita per i boss in cerca di un interlocutore più forte e strutturato. Già nel 1974, difatti, come sancito da sentenze definitive, Berlusconi aveva stretto un patto con il boss Stefano Bontate, mediato dal suo braccio destro Marcello Dell’Utri. Per quasi vent’anni, l’imprenditore milanese versò, attraverso Dell’Utri, finanziamenti milionari a Cosa Nostra, in cambio di protezione personale ed economica.

«Abbiamo l’Italia nelle mani, quello di Canale 5 scende in politica», confidava Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza poco prima del fallito attentato allo Stadio Olimpico del gennaio 1994, che poi non venne replicato. È esattamente in quel periodo che nasce Forza Italia, un partito più capillare del sogno mafioso e, soprattutto, di respiro nazionale. Un partito che pone la fine al secondo capitolo delle bombe mafiose ma apre un’epoca nuova, fatta di silenzi, patti non scritti e nuove alleanze tra poteri occulti e istituzioni. Non c’è più bisogno di tritolo per negoziare: le stragi del ‘92-‘93, che avevano sconvolto l’Italia e spinto l’opinione pubblica a invocare giustizia, si chiudono con un’illusione di normalità.
Nel 2023 Silvio Berlusconi muore da indagato per le stragi del 1993. Nello stesso fascicolo c’è ancora il nome di Marcello Dell’Utri, il quale, secondo i magistrati, durante e dopo la sua detenzione per concorso esterno in associazione mafiosa, avrebbe mantenuto il silenzio sulle verità degli attentati. Il tutto dietro a lauti compensi – si parla di decine e decine di milioni di euro – elargiti alla sua famiglia da Silvio Berlusconi. Via D’Amelio resta così un simbolo, non solo del sacrificio di Paolo Borsellino e della sua scorta, ma anche di un segreto che continua a pulsare sotto l’asfalto, tra le crepe dei palazzi, nelle pagine mai ritrovate dell’agenda rossa. Un segreto che, forse, racconta come l’Italia abbia cambiato pelle senza cambiare ossa.
[di Stefano Baudino e Riccardo Ongaro]
Bel articolo. Dovrebbe essere presente nei libri di storia della scuola pubblica italiana!