lunedì 15 Dicembre 2025

Multinazionali USA in Italia: 132,5 miliardi di ricavi, solo 2,16 miliardi di tasse

Nel 2022 le multinazionali statunitensi hanno realizzato in Italia ricavi per 132,5 miliardi di dollari, versando allo Stato italiano imposte per 2,16 miliardi, con un rapporto tra fatturato e gettito fiscale pari a poco più dell’1,6%. Un dato che restituisce l’immagine di una presenza economica ampia e strutturata, ma anche di una marcata sproporzione tra valore prodotto sul territorio e contribuzione fiscale. In un Paese caratterizzato da un’elevata pressione tributaria su famiglie e imprese nazionali, questi numeri riaccendono il confronto sulla capacità del sistema fiscale internazionale di intercettare in modo efficace i profitti delle grandi multinazionali.

La presenza delle multinazionali statunitensi in Italia è ampia e consolidata. Secondo le elaborazioni basate sui dati dell’Internal Revenue Service (IRS), l’amministrazione fiscale degli Stati Uniti, 805 gruppi a controllo USA operano stabilmente nel nostro Paese, con attività che, rispetto al confronto europeo, vanno ben oltre i servizi digitali e finanziari. In Italia la presenza delle multinazionali USA è legata soprattutto ad attività produttive e industriali, configurandosi come una componente strutturale dell’economia nazionale. I settori maggiormente interessati di questo ecosistema sono, infatti, manifatturiero, farmaceutico, automotive, chimico, energetico e tecnologico, comparti ad alta intensità di capitale e valore aggiunto. Queste imprese impiegano circa 227mila lavoratori sul territorio nazionale, contribuendo in modo rilevante all’occupazione diretta e all’indotto. La loro presenza si traduce in stabilimenti produttivi, centri di ricerca, sedi operative e reti di fornitori locali. In molte aree del Paese, soprattutto nel Nord industriale, le controllate di gruppi statunitensi rappresentano un elemento strutturale del tessuto economico. Il dato sui ricavi riflette un’attività economica reale, radicata e continuativa. Tuttavia, l’ampiezza dell’attività produttiva non si riflette in modo proporzionale nel carico fiscale effettivamente sostenuto. Il divario tra fatturato, valore aggiunto e imposte versate evidenzia come la localizzazione delle attività economiche e quella della base imponibile non coincidano. È una dinamica tipica delle grandi multinazionali, che nel caso italiano assume una particolare rilevanza per dimensioni e impatto.

Le Big Tech statunitensi concentrano la maggiore distanza tra ricavi e imposte. Amazon guida la classifica per fatturato in Italia (oltre 3,2 miliardi di euro), ma versa al fisco poco più di 26 milioni, mentre IBM, con ricavi inferiori, risulta il primo contribuente. Microsoft e Alphabet mostrano a loro volta un divario significativo tra volume d’affari e tasse pagate, divario che si accentua ulteriormente scendendo nella graduatoria, fino ai casi di Meta che fattura 400,749 milioni e paga 3,408 milioni, Oracle 192,275 milioni con 2,152 milioni, ADP 77,519 milioni con 564 mila euro, Adobe 17,066 milioni con 753 mila euro, infine, Uber, con 5,212 milioni di fatturato, si ferma a 174 mila euro di tasse. Il quadro che emerge è quello di un carico fiscale non proporzionale ai ricavi, con contributi molto differenti a fronte di volumi economici comparabili, riflesso di modelli societari e assetti fiscali eterogenei.

La distanza tra i ricavi generati in Italia e le imposte versate non è riconducibile a singoli casi isolati, ma riflette meccanismi strutturali della fiscalità internazionale. Le multinazionali operano attraverso architetture societarie complesse che permettono di distribuire costi, ricavi e utili tra diverse giurisdizioni. In questo contesto, strumenti come i prezzi di trasferimento, la gestione centralizzata dei diritti di proprietà intellettuale e i finanziamenti infragruppo incidono in modo determinante sulla localizzazione degli utili imponibili. La concentrazione di brevetti e marchi in Paesi a fiscalità agevolata comporta che le controllate operative, come quelle presenti in Italia, versino royalties e canoni che riducono l’utile tassabile locale. Pratiche in larga parte legittime e regolate da accordi contro la doppia imposizione, ma che finiscono per erodere la base imponibile nei Paesi dove avviene la produzione. Secondo il nuovo rapporto State of Tax Justice 2025 del Tax Justice Network, questo sistema ha contribuito a una perdita di gettito stimata in circa 22 miliardi di euro in sei anni per l’Italia, a conferma di una criticità non episodica ma sistemica. Negli ultimi anni, OCSE e Unione europea hanno avviato riforme, tra cui il Pillar Two e la tassazione minima globale del 15%, per limitare tali distorsioni. Tuttavia, l’attuazione di queste misure è lenta e complessa e i risultati restano, al momento, limitati.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.

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1 commento

  1. Che ne vengano all’infinito di mercanti di pace e salviamoli dai nostri Governanti ladri ed assassini, però i loro soldati a casetta loro, non qui a farci i nostri affari, lo capirete mai Italiani di m. che volete tassare i mercanti e non vedete i soldati?

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