Il mondo contemporaneo è segnato da squilibri economici sempre più profondi: la diseguaglianza sociale cresce sotto lo sguardo assuefatto dell’opinione pubblica, mentre una ristretta élite di miliardari concentra una ricchezza pari a quella posseduta dalla metà più povera della popolazione mondiale. Eppure, invece di provocare accese critiche e un rifiuto diffuso, la disparità economica finisce sempre più spesso per essere accettata, talvolta persino giustificata come inevitabile o celebrata come segno di successo. È quanto emerge dal libro The Social Acceptance of Inequality: On the Logics of a More Unequal World (Oxford University Press, 2025), curato dai sociologi Francesco Duina, docente al Bates college, e Luca Storti, professore associato all’università di Torino.
Il libro non indica soluzioni immediate, ma fa emergere i meccanismi psicologici e sociali che rendono i divari sociali accettabili. In alcuni contesti l’accettazione degli squilibri è molto più diffusa, come in Cina, dove oltre il 60% della popolazione giustifica le disuguaglianze di reddito, o in Svezia, dove emerge un ampio consenso verso welfare selettivo e discriminatorio nei confronti dei migranti. Con contributi corali e interviste provenienti da tutto il mondo, The Social Acceptance of Inequality mostra come le disuguaglianze non sono semplici effetti collaterali della modernità, ma trovano giustificazioni in una serie di “logiche di accettazione” profondamente radicate nelle coscienze individuali e collettive. Queste logiche – di natura economica, morale, culturale e di gruppo/etnica – sono spesso intrecciate fra loro, e convogliano in un’unica direzione: normalizzare la distanza tra ricchi e poveri, rendendola parte integrante del sistema. Le disuguaglianze non sopravvivono solo perché utili a chi detiene il potere, ma perché vengono giustificate attraverso narrazioni condivise. Il mercato diventa il primo alibi: concentrare ricchezza viene presentato come un motore di crescita, di innovazione, di benefici indiretti per tutti. La diseguaglianza, in questa prospettiva, non è un problema ma una condizione necessaria, un prezzo inevitabile del progresso. Per i venture capitalist o i fondatori di startup tecnologiche, la concentrazione di ricchezza rappresenta una “virtù”. Spesso, chi detiene i capitali fa leva su narrative filantrocapitalistiche: donazioni, start-up, tecnologie “salva-mondo”, tutte giustificazioni per un sistema che redistribuisce poco o nulla in termini strutturali. Questa combinazione di giustificazioni e auto-narrazioni produce una normalizzazione sociale: le disuguaglianze crescono, si consolidano, e al tempo stesso diventano invisibili perché vengono percepite come inevitabili, persino come “naturali”. Il sistema finisce così per ammettere la povertà come dato ineluttabile, a cui è inutile opporsi.
C’è poi chi sposa una logica più subdola: quella morale. In questa lettura, la ricchezza è vista come un premio meritocratico: chi si impegna, studia, rischia, “merita” di più. L’eredità familiare e il successo individuale non sono privilegi, ma ricompense legittime di un ordine considerato “giusto”. In certi casi, si arriva perfino a guardare con sospetto chi chiede pari opportunità, come se la povertà fosse il risultato di insufficiente impegno, incapacità o pigrizia. La normalizzazione della disuguaglianza passa anche attraverso una logica culturale o istituzionale: le strutture sociali e politiche in molti Paesi sono costruite in modo che le disuguaglianze non appaiano anomalie da correggere, ma pilastri inevitabili di un ordine ritenuto “naturale”. Spesso questa accettazione trova terreno fertile in contesti in cui la mobilità sociale è minima e l’accesso a risorse e opportunità si trasmette attraverso reti socioeconomiche chiuse o ereditarie. Ultima – e forse la più insidiosa – è la logica di gruppo o etnica, secondo cui certe categorie sociali, etniche, nazionali o di classe sarebbero “naturalmente” più meritevoli, degne di maggiori risorse. Non è un pensiero esplicito, ma traspare nelle scelte concrete su welfare, lavoro, opportunità.
Il vero paradosso è che questo consenso non è monopolio di chi detiene il potere e la ricchezza. Anche persone in condizioni precarie finiscono per accettare e addirittura giustificare le disuguaglianze. In questo modo, la disparità diventa strutturale non solo nei fatti, ma nella mentalità collettiva: un fossato che divide ricchi e poveri e al tempo stesso allontana chi vorrebbe cambiare il mondo dall’idea stessa di giustizia sociale.




