UMM AL-KHAIR, PALESTINA OCCUPATA – Come si consola un lutto così grande? Esistono parole per asciugare quelle lacrime? Anadhi piange, il velo nero le incornicia il viso oggi sempre triste. L’immagine di suo marito, Awdah Hathaleen è ovunque nel villaggio. Nel centro comunitario, sulle porte di alcune case, dipinto nell’abitazione che ospita i forestieri in visita. Un poster con il suo volto risalta sul muro del salotto di Anadhi, unica immagine sulle pareti spoglie. E poi la scritta col pennarello rosso, sul muro: 28/07/2025. A capo: Awdah. La storia dell’omicidio di Awdah e di questa comunità è la storia di tutta la Palestina. Un racconto che, da solo, parla più di mille altri. È la storia di Umma al-Khair, di Masafer Yatta, di Hebron. della Cisgiordania occupata. Di Gaza. È la storia dei palestinesi.
Awdah stava riposando quando, quel pomeriggio del 28 luglio, l’hanno chiamato per riattaccare l’acqua al villaggio. Umm al-Khair è un villaggio beduino di nemmeno trecento anime incastonato tra le colline a sud di Hebron, nella regione di Masafer Yatta. Pochi alberi, una distesa rocciosa semi-desertica ospita quella comunità scacciata dal deserto del Naqab nel 1948. Le violenze dei coloni ebrei, i futuri israeliani, li hanno obbligati a lasciare le proprie terre ormai 77 anni fa. E ora li vogliono mandare via di nuovo.
Nelle immagini registrate dal centro comunitario si vede tutto. La felpa rossa del 31enne è ben visibile dalle varie telecamere posizionate apposta per registrare i numerosi attacchi dei coloni della zona. Tutto, intorno, sembra tranquillo. Nessuno avrebbe immaginato che pochi minuti dopo, Awdah avrebbe perso la vita, rubata, come quasi tutto, da un israeliano residente nella vicina colonia illegale di Carmel. Un escavatore si avvicina alla comunità, vuole operare sulle terre palestinesi. Uomini, donne, bambini, si avvicinano, chiedendo di fermarsi, il macchinario stava rovinando alberi e recinzioni. Un uomo viene ferito alla testa dalla pala del mezzo, Awdah si mantiene lontano, riprende con il cellulare. Filma così la sua esecuzione.
Compare accanto alla ruspa un colono ben noto per le sue violenze contro la comunità palestinese, Yinon Levi. L’uomo, che gestisce un’impresa di lavori pubblici che da anni facilita l’insediamento di avamposti coloniali, era già sotto sanzione per le sue azioni in UE e UK. Tira fuori una pistola, inizia a puntarla contro tutti. Uno sparo. All’inizio nessuno si accorge che Awdah si è accasciato a terra. Era dietro tutti, a filmare, ad almeno 20 metri di distanza. Accanto, c’era uno dei suoi tre figli, Mohammed, 2 anni. Lo vede una donna, inizia a gridare, tutti si avvicinano. Cercano una macchina, ma sarà un’ambulanza uscita dalla colonia di Carmel a sequestrare il corpo. Ancora non sanno che Awdah è già morto, il proiettile l’ha centrato nel cuore.
Poco dopo arriva un mezzo militare israeliano, poi un altro, e un altro ancora. Sparano lacrimogeni contro la piccola folla di famiglie riunita. Sarà lo stesso colono a indicare chi arrestare. Cinque fratelli e cugini di Awadeh vengono portati via quella sera. Altri tredici nei due giorni successivi. Il perché, ignoto. Forse testimoni non voluti di un omicidio che Tel Aviv vuole nascondere. L’assassino, Yinon Levi, verrà rilasciato la notte stessa. Pochi giorni dopo tornerà a intimidire le famiglie palestinesi. I 18 membri della comunità arrestati verranno detenuti nelle carceri israeliane tra gli 8 e gli 11 giorni.
Le autorità di Tel Aviv ci hanno messo 10 giorni a restituire il corpo di Awdah. Pretendevano che il funerale si tenesse di notte, con meno di 15 persone, e che il corpo del giovane insegnante di inglese non venisse sepolto nel cimitero della comunità ma nella città di Yatta. Queste le condizioni per il dissequestro del cadavere. La comunità non ha accettato, e alla fine, dopo 10 giorni, centinaia di persone hanno potuto assistere alla cerimonia funebre. La polizia ha anche minacciato la famiglia, consigliandole di non andare avanti con la causa legale che chiede giustizia per l’ennesimo omicidio protetto dalla politica di Tel Aviv.

Pochi giorni dopo, i coloni hanno danneggiato il sistema elettrico ed idrico che portava acqua luce a metà delle case del paese. Nemmeno un mese dopo l’omicidio, hanno iniziato la costruzione di un nuovo avamposto, rubando nuovi centinaia di metri quadrati alla comunità di Umm al-Khair. Oggi sono almeno sei le abitazioni israeliane protette da filo spinato e recinzioni presenti a meno di dieci metri dalle case palestinesi. In alto, sventolano varie stelle di David bianche e blu. Il villaggio palestinese è ora praticamente circondato dai coloni.
14 ordini di demolizione per sradicare la comunità

Ma la storia non finisce qui. Era il 28 ottobre quando alcuni militari israeliani si sono presentati al centro comunitario per consegnare 14 ordini di demolizione. Le costruzioni, sono illegali, dicono. E vanno abbattute. La maggior parte sono case dove abitano buona parte delle famiglie di Umm al-Khair. Oltre allo stesso centro comunitario, la sede dell’attivismo di Umm al-Khair, nonché parco giochi per gli oltre 70 bambini del paese, e una serra invernale. «Se non riusciamo a fermare le demolizioni, quasi 100 persone rimarranno senza casa» dice a L’Indipendente Khalil Hathaleen, uno dei leader del villaggio nonché fratello maggiore dello scomparso Awdeh. «Distruggeranno quasi metà della comunità».

La pratica di demolire “strutture illegali” è una delle armi principe della pulizia etnica di Tel Aviv. Masafer Yatta è zona C, ossia sotto il totale controllo amministrativo d’Israele. Che rifiuta quasi completamente di rilasciare permessi di costruzione ai palestinesi. Le colonie illegali israeliane sono libere di ingrandirsi, e sono migliaia le nuove abitazioni approvate in tutta la Cisgiordania quest’anno. Mentre i palestinesi non possono costruire nuove case sulle proprie terre. Se non a rischio di vedersele demolire.

«La comunità di Umm al-Khair soffre l’occupazione da molto tempo, ma dopo il 7 ottobre le cose sono peggiorate. I coloni fanno quello che vogliono, e l’esercito e la polizia israeliana non fanno nulla per fermarli. Stanno distruggendo tutte le nostre forme di sostentamento: non possiamo più portare a pascolare le capre e le pecore a causa degli assalti dei coloni. Abbiamo un quarto degli animali di prima». Khalil è ben chiaro sul perché. «Vogliono mandarci via dalla nostra terra. Togliendoci i mezzi che abbiamo per sopravvivere. E ora, togliendoci anche le case». La comunità ha già subito 97 demolizioni dal 2007 a oggi. Ma questa volta, i 14 ordini di demolizione colpiranno le principali costruzioni della comunità.

La storia di Umm al-Khair è solo un esempio. Le violenze sono continue e ogni giorno nella regione si registrano attacchi alle case, campi distrutti, case demolite. Coloni e militari collaborano nello stesso, identico progetto di pulizia etnica di Masafer Yatta. Nuovi cancelli installati alle porte di ogni villaggio, che i militari d’Israele aprono e chiudono a piacimento, danno una idea visiva dell’apartheid che Tel Aviv non fa che consolidare.
«Hanno ucciso mio fratello perché era uno dei cuori pulsanti della comunità. Hanno costruito un nuovo avamposto. E ora vogliono abbattere 14 case. Questa è la nostra terra, e noi non ce ne andremo. Ma Israele va fermato,» conclude Khalil.




