Nonostante la proliferazione di decreti sicurezza e l’inasprimento punitivo degli ultimi anni, la microcriminalità in Italia continua a crescere. I dati ufficiali del Viminale riferiti al 2024 mostrano infatti un aumento dell’1,7% delle denunce rispetto all’anno precedente, con 2,38 milioni di reati registrati. Mentre reati come contrabbando e truffe informatiche si riducono, i furti, le rapine e le violenze sessuali segnano incrementi preoccupanti. Particolarmente allarmante è il coinvolgimento dei minori, cresciuto del 16% in un solo anno. Tale scenario si sviluppa in un contesto normativo che, da decenni, moltiplica le fattispecie di reato e le misure repressive, dimostrando l’inadeguatezza di un approccio puramente punitivo di fronte a fenomeni sociali complessi.
Le statistiche della banca interforze del Dipartimento di Pubblica Sicurezza rivelano che i furti rappresentano il 44% del totale dei reati, con un aumento del 3% rispetto al 2023. Particolarmente significativi gli incrementi dei furti in abitazione (+4,9%), delle rapine (+1,8%) e delle violenze sessuali, drammaticamente cresciute del 7,5%. Le città metropolitane fanno da catalizzatori dei fenomeni criminali: Milano, Firenze e Roma da sole raccolgono il 23,5% dei reati rilevati. Il dato più eloquente riguarda i minori: ogni quattro arresti per rapina, uno coinvolge un ragazzo sotto i 18 anni, con un aumento del 30% delle segnalazioni rispetto al 2019. Queste statistiche sembrano scontare il fallimento di un approccio che privilegia la risposta repressiva rispetto alla ricetta della prevenzione. La deriva degli ultimi anni è piuttosto evidente, avendo prodotto un impianto normativo sempre più volto a criminalizzare la povertà, gli emarginati, il disagio sociale e le opposizioni politiche, rimanendo invece sfacciatamente garantista verso le istituzioni e gli organi statali autorizzati a utilizzare la forza per reprimere il dissenso. Il paradosso emerge chiaramente dal confronto tra l’evoluzione normativa e i dati sulla criminalità. Mentre si moltiplicano le fattispecie di reato e si inaspriscono le pene, la microcriminalità invece di diminuire aumenta.
Negli ultimi 20 anni si sono accumulate norme come il dl Pisanu (2005), la riformulazione dell’art. 270 c.p. e i cosiddetti «decreti sicurezza» Salvini (dl n. 113/2018 e dl n. 53/2019) che hanno inasprito pene e ampliato strumenti repressivi, perseguendo dissenso e immigrazione con lo stesso registro securitario. Il DASPO, nato per i tifosi violenti, è stato declinato in molte varianti — «DASPO di gruppo», «DASPO urbano» e ora anche un «DASPO ferroviario» — trasformando strumenti specialistici in misure di controllo sociale più vaste. Il governo Meloni ha rincarato la dose: la retorica della “tolleranza zero” ha portato all’introduzione di nuove fattispecie di reato come l’«invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica» (art. 633bis c.p.) nel “Decreto Rave”, che prevede la reclusione da 3 a 6 anni per l’organizzazione di raduni non autorizzati. Particolarmente emblematico è l’approccio verso i minori. Il cosiddetto “decreto Caivano” (l.n. 159/23) ha notevolmente ampliato le misure repressive, estendendo l’impiego del DASPO ai maggiori di 14 anni e potenziando la facoltà di arresto in flagranza.
A giugno è stato poi approvato il nuovo Decreto Sicurezza, con l’effettiva l’introduzione di 14 nuovi reati, tra i quali quello di «occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui», di blocco stradale e di rivolta nelle carceri e nei CPR (considerata reato anche in caso di protesta pacifica). Sono state inoltre inasprite le sanzioni per altri 9 reati già esistenti. Ma non è finita qui. Negli ultimi giorni, la lega ha rilanciato l’offensiva sulla «sicurezza totale» con un nuovo pacchetto di quattordici proposte presentato alla Camera. Tra le misure più discusse, spicca l’introduzione di una cauzione preventiva per gli organizzatori di manifestazioni, uno strumento che punisce indirettamente il diritto di protesta. Il pacchetto tocca anche immigrazione, con restrizioni ai ricongiungimenti familiari e il permesso di soggiorno a punti, e ordine pubblico, con inasprimenti penali e procedure accelerate per gli sgomberi, estese a tutti gli immobili, non solo alle prime case.
A questa intensa spinta repressiva, tuttavia, negli ultimi anni non è stata abbinata una maggiore capacità preventiva, mancando investimenti strutturali su politiche sociali, educative e di integrazione giovanile. Mancano, inoltre, norme sulla trasparenza e controlli rigorosi sull’uso della forza da parte delle forze dell’ordine (l’Italia è ad esempio ancora fra i pochi Paesi senza numeri identificativi sui caschi). Il risultato è paradossale: normative sempre più dure che colpiscono spesso i sintomi – occupazioni abusive, proteste, microcriminalità di strada – senza curare le cause profonde come povertà, esclusione e deficit di servizi sul territorio.




