AL-KHALIL, CISGIORDANIA OCCUPATA – Sono migliaia i coloni israeliani e i sionisti da tutto il mondo che si sono radunati per lo Shabbat Chayei Sarah, nel cuore della città di Hebron (Al-Khalil per i palestinesi), per un weekend di festeggiamenti in onore di Sara, la moglie di Abramo, sepolta nella famosa tomba dei patriarchi. Hebron è infatti uno dei cuori pulsanti del nazionalismo religioso di estrema destra israeliano. Nella città sacra ad ebrei, cristiani e musulmani, i palestinesi non possono muoversi liberamente e durante lo Shabbat Chayei Sarah l’apartheid si mostra in tutta la sua violenza. L’esercito ha imposto il coprifuoco da venerdì mattina in diversi quartieri della città vecchia, chiudendo numerosi check-points e impedendo ogni ingresso e uscita. Molti residenti palestinesi non hanno potuto tornare alle loro case e sono stati costretti a pernottare presso parenti in altri quartieri. Venerdì e sabato, migliaia di coloni hanno sfilato per Al-Shuhada street, la strada dei martiri, preclusa ai palestinesi ormai da 25 anni, molti intonando cori e slogan anti-arabi. Giovani sionisti hanno attaccato alcune case palestinesi con pietre, gettando oggetti e liquidi dalle colonie della città vecchia. Ma le forti piogge hanno forse impedito un aggravarsi delle violenze che in molti temevano.
Hebron, la città divisa
«La situazione qui è sempre più difficile», mi dice Qusay, un uomo sulla quarantina, pochi secondi dopo che sei soldati dell’IDF, fucili in braccio, ci passano davanti in uno dei loro quasi quotidiani raid. Siamo nel cuore della città vecchia di Hebron. La “città divisa”, la Palestina in miniatura. Spaccata a metà da muri, check-points, telecamere con armi semi-automatiche, militari. «Ho paura per mia figlia. [I militari] vengono quasi tutti i giorni. Non è più sicuro qui». È il giorno prima del Shabbat Chayei Sarah, la ricorrenza religiosa ebraica che si tiene ogni anno a Hebron per promuovere la narrazione della presenza storica ebraica nella città. Una ronda di soldati israeliani sorprende la mia colazione mattutina, ma nessun altro per strada è stupito: ormai le divise e le armi israeliane fanno parte del panorama della città vecchia.
«Vogliono mandarci via» continua un uomo, mentre chiude il suo negozio a poche decine di metri da uno dei cancelli che divide Al-Khalil e che blocca l’accesso ad Al-Shuhada, la strada che una volta era il cuore pulsante del mercato cittadino. E che dalla Seconda Intifada è preclusa ai palestinesi. «L’economia è sempre più difficile, molti negozi hanno chiuso. Vogliono prendersi tutto. Ma questa è la nostra terra. Non la lasceremo mai».
Al-Khalil è la città-apartheid: tornelli, filo spinato, muri e grate controllano e limitano gli spostamenti dei circa 35 mila palestinesi che abitano la cosiddetta zona H2, costretti a continui controlli di identità, violenze e abusi da parte dei militari israeliani e dei numerosi coloni che si sono installati nell’area. Hebron/Al-Khalil è l’unica città oltre a Gerusalemme ad avere colonie al suo interno; vere e proprie enclavi circondate da torrette di avvistamento, mura e soldati, che come nel resto della Cisgiordania occupata, stanno cercando di espandersi. Le strade palestinesi – così come molte finestre e porte – che confinano con gli insediamenti israeliani sono protette da grate, per proteggere i passanti dal lancio di immondizia e oggetti da parte dei coloni.
Più difficile è proteggersi dagli ormai famosi “tour” provocatori che i settlers organizzano sempre più spesso nella città vecchia, quando quasi settimanalmente decine di sionisti invadono la parte palestinese della città accompagnati e protetti dai soldati delle IDF.
Hebron è il simbolo delle troppe ingiustizie subite. I palestinesi si sono visti sottrarre il 20% della città dopo aver subito un massacro. Era il 25 febbraio 1994 quando Baruch Goldstein, un israeliano-statunitense residente nella colonia illegale di Kiryat Arba, entrò nella moschea di Ibrahim e aprì il fuoco sui fedeli mussulmani in preghiera. Circa 29 persone furono uccise, 129 i feriti. Altri 26 palestinesi morirono per mano dell’esercito israeliano durante le proteste scoppiate in giornata. Il massacro subito dai palestinesi fu il pretesto per dividere la città in due settori, come sancì il Protocollo di Hebron firmato (ma mai ratificato) nel 1997: Hebron 2 (quell’H2 che rappresenta circa il 20% della città), sotto controllo dell’esercito israeliano, e Hebron 1, affidata al controllo dell’Autorità palestinese.
H2 è una grande prigione a cielo aperto per i circa 35 mila residenti palestinesi, costretti ad obbedire – dietro la minaccia delle armi o della prigione – alle regole dei circa 800 coloni israeliani occupanti e degli almeno mille soldati che vi risiedono. Check-point, cancelli, tornelli, ma anche telecamere a riconoscimento facciale impediscono il libero movimento e costringono la popolazione palestinese a continui abusi e violenze.
Il Chayei Sarah dietro le grate delle case palestinesi
La casa di Mohammad è ormai un pezzo della frontiera cittadina. «Anni fa il mio ingresso era di là» ci dice, indicando una porta sprangata con sbarre di metallo. Dietro, le voci di centinaia di persone che parlano e gridano in inglese, francese, ebraico. “Di là” è Al-Shuhada street, invasa negli ultimi due giorni da migliaia di coloni e sionisti da tutto il mondo. «Tre mesi fa una dozzina di militari e coloni hanno sfondato la porta e sono entrati in casa. Ero con mio figlio; ci hanno malmenato e minacciato. Hanno anche spaccato il televisore e altri oggetti. Mio figlio è finito in ospedale». È tranquillo Mohammad, mentre osserviamo gruppi di persone armate, mezzi corazzati della polizia e dei militari passare oltre le grate del balcone. Le finestre e le porte sono chiuse da una fitta rete metallica, peggio di una prigione. «Ho dovuto metterle perché mi lanciavano sassi e bottiglie. Tutti qua ormai viviamo così».
Nella via principale della città vecchia, la rete metallica fa da tetto alla strada. I coloni infatti hanno occupato alcune case nei piani alti delle strutture, e si divertono a lanciare oggetti e immondizia ai palestinesi mentre passano. «Le cose sono peggiorate dal 7 di ottobre. Ma ogni anno è peggio di quello prima», dice. «Molte persone se ne sono andate. Non c’è più economia. Non ci sono turisti, e i palestinesi di Al-Khalil hanno paura a venire nella città vecchia a causa dei militari e dei coloni». Dal 1994 Israele si è infatti prodigato nel soffocare le attività commerciali palestinesi nella zona, emanando ordini militari per obbligare alla chiusura circa 1500 negozi.
Mohammad non ha intenzione di andarsene. In questa casa ci è cresciuto. Ricorda molto bene quando, nonostante l’occupazione israeliana fosse presente, Al-Khalil era una città dove ci si poteva muovere liberamente. E sogna che possa tornare a esserlo. Ci offre un caffè, poi un altro. «Benvenuti. Benvenuti ad Al-Khalil».
[Nota dell’autrice: i nomi all’interno dell’articolo sono stati modificati per tutelare la sicurezza dei soggetti]




