Durante i lavori della COP30 che è in corso a Belém, in Brasile, presentata dagli organizzatori come “la COP della foresta”, un gruppo di indigeni ha fatto irruzione nel palazzo sede del forum, al grido di “la nostra terra non è in vendita e “tassate i milionari”, scontrandosi con guardie e servizio di sicurezza. Secondo le accuse dei membri dei popoli originari, infatti, la retorica della salvaguardia adottata dai partecipanti all’evento nasconde i giochi di governi e multinazionali, che non hanno altro interesse se non preservare potere e profitti.
La presenza di lobbisti delle multinazionali fossili è infatti molto forte anche in questa edizione della Conferenza delle Parti e il loro peso è di certo superiore a quello dei rappresentanti delle comunità indigene. Per questo motivo, un gruppo di membri dei popoli nativi ha fatto irruzione nella sede dove la Conferenza si stava svolgendo nella giornata di ieri, 12 novembre, scontrandosi con le forze dell’ordine. Nei giorni scorsi, decine di membri di queste popolazioni hanno raggiunto il luogo della Conferenza, dove intendono far sentire anche la propria voce. Vi è ad esempio la missione Yaku Mama (letteralmente “madre delle acque”), una flotta indigena salpata circa un mese fa dalle Ande ecuadoregne che ha viaggiato per più di 3mila chilometri e alla quale hanno preso parte leader nativi colombiani, ecuadoregni, guatemaltechi, messicani, panamensi, cileni, peruviani, boliviani e indonesiani. La lotta panindigena, frutto della chiamata degli indigeni brasiliani, ha come slogan della propria rivendicazione “La risposta siamo noi”, che dà il nome alla campagna della lotta nativa. I popoli originari chiedono infatti diritti territoriali (che dovrebbero già essere garantiti), la fine della deforestazione, lo stop all’utilizzo dei combustibili fossili e all’estrazione neiterritori indigeni. Inoltre, rivendicano le proprie tradizioni e il proprio stile di vita. Chiedono accesso diretto ai finanziamenti per il clima, senza intermediari. Ultimo, ma non meno importante, chiedono di avere un potere reale all’interno dei consessi internazionali, al pari di ogni altra nazione del mondo, e di non voler partecipare come mere comparse di scena.
Il cuore della polemica è la crescente enfasi su progetti di compensazione basata sulla natura. Governi, grandi aziende e perfino alcune ONG per la conservazione spingono per monetizzare le foreste, permettendo alle multinazionali di acquistare “crediti di carbonio” per raggiungere la loro presunta “neutralità”. La pratica è stata denunciata come puro atto di greenwashing, dal momento che permette alle aziende di continuare a inquinare altrove, senza dover affrontare la radice del problema: il consumo eccessivo e il capitalismo estrattivo. La creazione o l’espansione di Aree Protette per generare crediti porta regolarmente a sfratti forzati delle comunità indigene. Si registrano arresti arbitrari, violenze e, in casi documentati in Asia e Africa, persino uccisioni per mano di guardaparco e forze di sicurezza.
Come spiega Survival International, organizzazione per la protezione delle popolazioni native, nonostante le foreste siano la fonte del profitto, la maggior parte dei ricavi dai crediti di carbonio viene intercettata da una rete di intermediari: sviluppatori, ONG e società di certificazione e consulenza. I popoli indigeni, i più efficaci nella protezione ambientale, ricevono una frazione irrisoria del valore generato. Progetti come quelli in Kenya e Tanzania stanno costringendo i popoli pastorali ad abbandonare i loro sistemi di pascolo tradizionali e le leggi consuetudinarie, minando la loro resilienza e sicurezza alimentare di fronte ai cambiamenti climatici. La titolarità dei diritti sul carbonio è spesso legalmente ambigua e, cosa ancor più grave, molti progetti vengono avviati senza il Consenso Libero, Previo e Informato (FPIC) delle comunità coinvolte.




