domenica 2 Novembre 2025

La rivolta della Generazione Z

Un’ondata di rivolte ha colpito le istituzioni politiche ed economiche di vari Paesi sparsi per il globo, dal Nepal alla Mongolia. Tutte hanno un tratto in comune: coloro che vi hanno preso parte sono per la maggior parte appartenenti alla cosiddetta Generazione Z, ovvero quella dei nati tra il 1997 e il 2012. Le analisi condotte dai media hanno bollato questi eventi come proteste contro la corruzione o la repressione poliziesca, senza sforzarsi di comprendere a fondo il fenomeno e tracciare le similitudini. Molte di queste lotte sono infatti animate da una coscienza politica profonda e vedono tra i promotori movimenti che contestano apertamente le disparità economico-sociali, puntando il dito contro un modello di sviluppo che permette condizioni sempre più agiate a una ristretta élite, in molti casi figlia della stessa classe dirigente, in netto contrasto con l’abbandono infrastrutturale e la diffusa povertà della maggior parte della popolazione. Questi manifestanti non chiedono una generica riforma della politica, ma pretendono il cambio di un sistema incentrato su privilegi per pochi e precarietà di vita per tutti gli altri. 

Nepal, da Discord alla caduta del governo

Giovani manifestanti a Katmandu, Nepal

Tra le proteste che negli ultimi due anni hanno imperversato tra l’Asia meridionale e il Sud Est Asiatico, le manifestazioni in Nepal sono state tra quelle maggiormente coperte dai mezzi di comunicazione occidentali. 

Dopo secoli di monarchia, nonostante l’ottenimento della democrazia, durante gli ultimi vent’anni la situazione in Nepal non ha portato ai miglioramenti sperati dalla popolazione. L’attuazione di un modello capitalista fondato su una scarsa industrializzazione e sul turismo ha ingrossato le casse delle caste più elevate, a discapito della maggior parte della popolazione nepalese. Il tasso di povertà assoluta che supera il 20% e la disoccupazione giovanile al 21% si scontrano con le condizioni economiche delle famiglie al potere, le quali, in molti casi, fanno sfoggio dei propri agi sui social network. Dopo una prima ondata di manifestazioni, represse duramente dalla polizia, l’8 settembre sono riesplose le proteste, quando il governo ha deciso di bloccare temporaneamente l’accesso a più di venti social network. Rapidamente le proteste, organizzate su piattaforme come Discord, sono divenute violente e si sono abbattute sulle principali strutture del potere nepalese a Kathmandu. 

I manifestanti hanno preso d’assalto il Parlamento, la Corte Suprema, oltre che le residenze del presidente e le sedi del Partito Comunista del Nepal. Nei giorni seguenti il primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli ha rassegnato le dimissioni e il testimone è passato nelle mani di Sushila Karki, giurista nota per la sua lotta alla corruzione e segnalata dai manifestanti come unica figura in grado di poter traghettare il Paese alle prossime elezioni.

Indonesia, il dissenso contro la militarizzazione

Proteste a Makassar, in Indonesia

Tra le proteste imperversate tra i Paesi del Sud Est asiatico, l’Indonesia ha raggiunto livelli di violenza e repressione militare eccezionalmente alti e allarmanti. In pochi giorni le attività della polizia hanno portato a 3000 arresti, venti persone risultano scomparse e l’utilizzo della violenza da parte delle autorità militari ha causato almeno otto morti accertati. Il fuoco della protesta è deflagrato il 25 agosto del 2025, quando i giovani, appoggiati dai sindacati, sono scesi per le strade di Jakarta e in particolare di fronte al Parlamento a manifestare contro l’approvazione di una legge che prevedeva l’aumento di benefici economici per i parlamentari del Paese. Gli stipendi di queste figure politiche superano i 100 milioni di rupie indonesiane (più di 5000 euro), di cui una parte è costituita da un bonus per l’alloggio. Queste cifre entrano in netto contrasto con le politiche attuate dal presidente indonesiano Prabowo Subianto che, in carica dall’ottobre del 2024, ha dato il via a una serie di misure di austerity finalizzate a contrastare l’aumento dell’inflazione attraverso profondi tagli a settori come la sanità e l’istruzione.  

Se da un lato i progetti economici di Prabowo hanno già deluso le aspettative, dall’altro la società indonesiana sta vivendo sulla propria pelle un aumento drastico della militarizzazione del Paese. È bene sottolineare che la figura del presidente è storicamente legata agli anni della dittatura in Indonesia, quando, sotto l’autorità di Suharto, Prabowo ricopriva il ruolo di comandante delle forze speciali indonesiane. Difatti, l’approvazione di alcune misure in ambito militare ha rapidamente attirato l’attenzione di coloro i quali hanno vissuto gli anni della dittatura. Nel marzo del 2025, Prabowo ha rimaneggiato l’articolo 47 della Costituzione, applicando un aumento dell’età pensionabile per il personale militare e l’accesso agli incarichi civili da parte delle forze militari. Tra questi ruoli spiccano lasegreteria di Stato, la procuratoria generale e l’antiterrorismo. Se la prima ondata di proteste è stata repressa con violenza dalle autorità, l’approvazione di una nuova misura che raddoppia l’indennità dei parlamentari per le vacanze sta innalzando nuovamente il livello di tensione tra i manifestanti.  

Mongolia, si dimettono due presidenti

Proteste di fronte al palazzo del governo a Ulaanbaatar, in Mongolia

Tra le manifestazioni contro la corruzione che hanno animato i giovani di vari Paesi dell’Asia, sicuramente le proteste in Mongolia hanno trovato poco spazio nella stampa generalista italiana. Anche in questo caso, la popolazione è scesa in piazza in seguito a scandali di corruzione legati alla classe politica a capo del Paese. Nel maggio del 2025 sono state organizzate altre manifestazioni in occasione di scandali emersi attraverso i social network della famiglia presidenziale. Il casus belli riguarderebbe alcuni regali di lusso fatti dal figlio del presidente Oyun-Erdene Luvsannamsrai alla propria fidanzata, elemento che metterebbe in evidenza le ricchezze della famiglia al governo e sottolineerebbe così le profonde disuguaglianze tra le élite del Paese e il resto della popolazione. Eletto nel 2024, Luvsannamsrai raggiunse la presidenza grazie a un’alleanza tra il suo Partito Popolare e il Partito Democratico, avversario durante le elezioni.

Le proteste, che si sono svolte in maniera prevalentemente pacifica, hanno raccolto il plauso di alcuni deputati democratici: proprio questo elemento ha portato all’esclusione del partito dalla coalizione di governo e, di conseguenza, alla proposta di una mozione di fiducia nei confronti del presidente Luvsannamsrai. Nonostante il capo del governo abbia negato ogni coinvolgimento con i casi di corruzione, il 3 giugno scorso si è visto costretto a rassegnare le dimissioni in seguito all’insuccesso della mozione di fiducia. 

Dopo soltanto quattro mesi, il 10 ottobre del 2025, anche il neopresidente Gombojav Zandanshatar è stato sfiduciato dal parlamento con l’accusa di aver nominato unilateralmente il nuovo ministro della Giustizia e degli Affari Interni, contravvenendo alla Costituzione. 

Marocco: più ospedali, meno stadi

Le proteste dei giovani marocchini contro le politiche di Rabat

Anche i giovani marocchini stanno scendendo in piazza da settimane per protestare contro il sistema. Tutto ha avuto inizio a fine settembre del 2025, quando, dopo la diffusione di una notizia riguardante le morti di otto partorienti nell’ospedale Hassan II di Agadir, migliaia di giovani si sono radunati nelle piazze principali delle più grandi città marocchine per manifestare contro le politiche di Rabat. Le immagini delle condizioni in cui versano molti degli ospedali pubblici hanno acceso un sentimento di profonda ingiustizia in una popolazione che denuncia gravi lacune in ambito sanitario, profonde disuguaglianze economiche, un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 37% e una condizione di totale abbandono delle aree più periferiche del Paese. 

A questo si aggiunge l’organizzazione della Coppa d’Africa del 2025 e dei Mondiali di calcio del 2030, che, come reclamato dai giovani manifestanti, sta mettendo in evidenza l’interesse da parte del governo di concentrarsi su tematiche futili, invece di intervenire sulle condizioni critiche in cui versano i principali settori pubblici del Paese. Come in Nepal, le proteste sono state organizzate su piattaforme social come Discord e Instagram, sotto il nome di GenZ212 e Moroccan Youth Voices. Le manifestazioni sono rapidamente dilagate in tutto il territorio e, come denunciato da vari collettivi impegnati nella tutela dei diritti umani, le forze di polizia hanno represso fin da subito ogni forma di dissenso, attaccando con violenza sproporzionata i giovani manifestanti e uccidendo tre persone. Gli arresti sarebbero oltre duemila, novecento le accuse di crimini di vario genere. Nonostante le proteste, il multimiliardario primo ministro e sindaco di Agadir Aziz Akhannouch ha sorvolato sulle ragioni delle manifestazioni, mentre il re Mohammed VI ha invitato il governo ad approvare riforme sociali, senza però mai accennare all’eventualità di dimissioni per il presidente Akhannouch. 

Perù, la repressione infiamma le proteste

Anche nel caso del Perù, le proteste si sono concentrate dopo l’approvazione, da parte del governo di Dina Boluarte, di una legge legata al sistema pensionistico del Paese. Secondo quanto previsto da questa misura, tra le altre cose, i pensionati di età inferiore ai 40 anni non avrebbero potuto più accedere al 95,5% dei fondi accumulati fino al momento. Spontaneamente, dal 13 settembre, vari manifestanti, ispirati dalle immagini provenienti dal Nepal e dall’Indonesia, hanno iniziato a riunirsi nelle vie del centro della capitale Lima e, nei giorni successivi, le proteste si sono diffuse in varie città del Paese, interessando specialmente i giovani. Fin da subito la polizia ha attaccato con violenza i manifestanti, ferendo anche vari giornalisti, ma la repressione non ha fatto altro che innalzare il livello della tensione sociale. 

Il 9 ottobre il Congresso della Repubblica ha destituito Dina Boluarte, per poi trasferire l’incarico al conservatore José Jerí, accusato, tra le altre cose, di aggressione sessuale e arricchimento illecito. L’assunzione dell’incarico da parte del nuovo presidente non ha fatto che aizzare le proteste, che il 15 di ottobre si sono svolte simultaneamente in più di quindici città peruviane. Anche in questo caso la polizia ha represso brutalmente i manifestanti, ferendone a decine, mentre a Lima un agente di polizia avrebbe ucciso il musicista Mauricio Ruíz, noto con il nome d’arte Trvko. L’uccisione di Ruíz ha innescato una spirale di rabbia tra i manifestanti, che la stessa sera si sono radunati davanti alla sede del Congresso della Repubblica e del Palazzo del Potere giudiziale e hanno iniziato a lanciare sassi contro le rispettive sedi del potere peruviano. 

Il termine «Gen Z» per celare la lotta di classe

Sebbene sia indubbio che i principali fautori di questa nuova ondata di proteste siano i giovani appartenenti alla generazione nata a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila, è interessante notare come la stampa occidentale abbia rapidamente etichettato le proteste attraverso la dicitura «Gen Z», senza sottolineare che nella quasi totalità dei casi si tratta di manifestazioni indette dalle fasce più colpite dalle disuguaglianze sociali e dalla disoccupazione. Come affermato da Wlliam Shoky, redattore della rivista online Africa is a Country, l’attenzione rivolta dai media sull’età dei manifestanti sembra avere il fine di depoliticizzare delle proteste che invece denunciano le nefandezze di sistemi politici ed economici chiaramente definiti.  

Proteste per la Palestina a Roma

Se da un lato i media generalisti scelgono di soffermarsi sulla presenza tra i manifestanti di bandiere con il Jolly Roger, il teschio tratto dal fumetto giapponese One Piece, con l’intenzione di trasformare le proteste in elementi di costume giovanile, dall’altro sembra essere messa in atto dalla stessa stampa un’operazione di profonda delegittimazione del movimento, che, nella sua essenza, vuole soppiantare un sistema ereditato da politiche messe a punto dalle generazioni precedenti. Se si vuole tracciare un filo rosso tra queste manifestazioni, è necessario, chiaramente, includere anche le proteste che si stanno verificando in Italia e in molte città europee contro il genocidio in Palestina, perché fondate sull’ingiustizia sofferta davanti all’impunità di cui gode Israele. La rabbia che sta animando simultaneamente migliaia di giovani in varie parti del mondo è il risultato di un sistema politico ormai fallito. Queste proteste stanno dimostrando la forza di una popolazione schiacciata da decenni di disuguaglianze istituzionali; limitarle alla dicitura «Generazione Z» potrebbe essere fin troppo riduttivo. 

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Armando Negro

Laureato in Lingue e Letterature straniere, specializzato in didattiche innovative e contesti indipendentisti. Corrispondente da Barcellona, per L’Indipendente si occupa di politica spagnola, lotte sociali e questioni indipendentiste.

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