Nella giornata di domenica le Rapid Support Forces (RSF), truppe ribelli che dall’aprile 2023 contendono il potere alla giunta militare guidata dal generale Al-Burhan, hanno preso il controllo della città di El-Fasher, capitale dello stato del Nord Darfur e ultima roccaforte delle Forze Armate Sudanesi (FAS) nelle regioni occidentali del Sudan. Immagini e testimonianze restituiscono una carneficina, con centinaia di cadaveri e scene di esecuzioni di massa anche nei pressi dell’ospedale. Ultima mattanza di una guerra che in due anni e mezzo ha provocato un numero imprecisato di vittime (tra 60 e 150 mila a seconda delle stime) e circa 11 milioni di sfollati. Un disastro che avviene in un silenzio internazionale che nasconde non solo indifferenza ma, soprattutto, i torbidi interessi attraverso cui molti attori globali supportano uno dei due eserciti in campo.
La presa di El-Fasher, posta sotto assedio per 18 mesi, segna una conquista cruciale per le RSF che, dopo oltre due anni di sanguinosissima guerra civile, controllano ormai un terzo del territorio nazionale. Ma la conquista non significa il silenzio delle armi: la situazione nella città peggiora di ora in ora e le violenze contro la popolazione civile aumentano. Diversi rapporti, tra cui quello pubblicato dallo Humanitarian Research Lab dell’Università di Yale, documentano attraverso immagini satellitari i massacri compiuti dai miliziani delle RSF. E non sono solo le immagini dal cielo a raccontare la brutalità della situazione: anche numerosi video diffusi sui social network mostrano uomini armati che aprono il fuoco su civili inermi. Mercoledì in uno di questi filmati si vedevano i miliziani delle RSF camminare per i corridoi del Saudi Maternity Hospital di El Fasher, dove i militari hanno ucciso più di 460 pazienti e il loro accompagnatori. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che da aprile 2023 si sono verificati 185 attacchi contro strutture sanitarie, con almeno 1.204 morti e oltre 400 feriti. Secondo la Rete dei Dottori Sudanesi, le RSF stanno uccidendo decine di persone su base etnica, proseguendo la mai interrotta pulizia etnica dei sudanesi non arabi. Le Forze Congiunte, alleate dell’esercito sudanese, accusano le RSF di aver ucciso più di 2000 civili in 2 giorni.

Si moltiplicano intanto gli appelli accorati di alti funzionari delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana e di diverse ONG internazionali che chiedono la protezione dei civili rimasti a El-Fasher e l’apertura di vie di fuga sicure. Tom Fletcher, coordinatore degli aiuti di emergenza delle Nazioni Unite, si è detto «profondamente allarmato» dalle notizie di uccisioni sommarie e ha invocato «un cessate il fuoco immediato a El-Fasher, in tutto il Darfur e in tutto il Sudan». Anche il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Mahmoud Ali Youssouf, ha espresso grande preoccupazione per la situazione umanitaria e ha condannato le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, commessi dalle RSF.
Ma la devastazione che si consuma a El-Fasher è solo l’ultimo capitolo di una guerra fratricida iniziata il 15 aprile 2023 e che con estrema difficoltà trova spazio sui media occidentali. In due anni di guerra civile, i dati parlano chiaro: almeno 150 mila morti e oltre 12 milioni di sfollati. Secondo il World Food Programme, oggi 24,6 milioni di sudanesi – quasi la metà della popolazione – si trovano in una condizione di insicurezza alimentare, mentre 630 mila persone – il numero più alto al mondo – affrontano un livello catastrofico di fame. Oltre un bambino su tre soffre di malnutrizione acuta, una percentuale superiore del 20% rispetto alla soglia che definisce la carestia. Una crisi, questa, che ha guadagnato al Sudan il triste primato di peggior emergenza umanitaria del pianeta.
Le radici della tragedia però, affondano nella storia tormentata del Paese del Corno d’Africa, che dal 1956, anno dell’indipendenza dal potere britannico, ha conosciuto un susseguirsi di dittature militari e brevi parentesi democratiche, con la guerra civile come costante. Quando nel 2019, dopo grandi proteste popolari, il trentennale dittatore Omar al-Bashir fu deposto con un colpo di stato guidato dal generale al-Burhan, Mohamed Hamdan Dagalo – detto Hemedti – comandante delle RSF – da sempre fedeli ad Al-Bashir- comprese che per mantenere il proprio potere doveva voltare le spalle al vecchio dittatore e schierarsi con al-Burhan.

Dopo la formazione di un governo civile-militare di transizione, le proteste non cessarono: la popolazione continuava ad accusare i militari di ostacolare l’operato dei civili. Nel 2021 i due generali organizzarono un nuovo colpo di stato, giustificandolo con l’incapacità delle forze civili di trovare un accordo. Presto però, iniziarono i dissidi tra i due leader, soprattutto sul destino delle RSF e sul loro eventuale assorbimento nei ranghi delle FAS. Nel frattempo, le RSF avevano guadagnato sempre più potere, anche grazie al controllo di numerose miniere d’oro nel Darfur: la loro subordinazione ai comandi delle FAS era impensabile per Hemedti. Così, il 15 aprile 2023, la milizia da lui guidata attaccò le posizioni delle FAS nella capitale Khartoum.
Dopo i primi mesi, in cui le FAS subirono pesanti sconfitte – tra cui la perdita di Khartoum e lo spostamento della capitale a Port Sudan – le violenze si estesero a gran parte del Paese. Fino all’offensiva lanciata dalle FAS nel settembre 2024, le due forze si erano consolidate su due direttrici: le RSF controllavano il sud-ovest del Paese, con alcune sacche ancora in mano alle FAS, come era El-Fasher, mentre le FAS dominavano il nord-est. Con la riconquista di Khartoum da parte delle truppe di al-Burhan, nel marzo di quest’anno, è apparso chiaro che nessuna delle due parti contempla la fine delle ostilità – nonostante i tentativi di mediazione promossi da Stati Uniti e Arabia Saudita – se non attraverso una vittoria militare.
È difficile non vedere gli interessi esterni che alimentano la guerra, vista la ricchezza del Sudan, terzo produttore di oro del continente con almeno 90 tonnellate estratte ogni anno. Oltre all’oro, il Paese dispone di giacimenti petroliferi – ridotti dopo la secessione del Sud Sudan – e di un prezioso sbocco sul Mar Rosso, ambito da molte potenze. La guerra civile non esisterebbe senza questi interessi e senza le armi fornite dagli attori internazionali. Proprio di questo ha parlato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres che lunedì ha esortato tutti i paesi che stanno interferendo nel conflitto e coloro che «forniscono armi alle parti in guerra» a smettere di minare gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco
Dietro al-Burhan si schierano Arabia Saudita, che compete con gli Emirati Arabi Uniti (EAU) per l’influenza sulla costa orientale africana, ma anche Iran, Egitto e Turchia, quest’ultima storicamente vicina alle FAS e, dalla fine dello scorso anno, fornitrice di droni che molti analisti considerano decisivi per l’offensiva delle Forze Armate Sudanesi. Dall’altra parte, Dagalo ha cercato di accreditarsi come un leader affidabile attraverso una serie di visite internazionali, ma le accuse di genocidio in Darfur hanno fatto cadere le sue ambizioni. Gli Emirati, principali importatori dell’oro sudanese, hanno interesse a sostenere le RSF, che controllano la maggior parte delle miniere del Darfur. Per questo sono oggi i maggiori fornitori di armi alle milizie di Hemedti, con forniture che transitano attraverso la Libia di Haftar e il Ciad, che nel 2023-24 ha ricevuto due miliardi di dollari dagli EAU nel quadro di un accordo di cooperazione militare.

Mentre le grandi potenze – Cina, UE e Stati Uniti – restano a guardare senza però perdere di vista i propri asset strategici nella regione, la Russia gioca su più tavoli: dall’inizio del conflitto ha fornito armi e uomini alle RSF in cambio dello sfruttamento delle miniere d’oro sotto il loro controllo, ma oggi fa affari anche con al-Burhan, puntando all’accesso diretto al Mar Rosso.
Al momento non sembra esserci alcuna prospettiva di soluzione diplomatica. I colloqui finora si sono conclusi senza risultati concreti. A settembre, il gruppo noto come Quad – formato da Stati Uniti, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti – ha presentato un piano in più punti per porre fine al conflitto, lanciato dopo l’emergere di una possibile frammentazione del Sudan, segnata dalla nascita di un governo in esilio, che controllerebbe le aree in mano alle milizie di Hemedti. Sarebbero anche iniziati dei colloqui indiretti a Washington la scorsa settimana, ma che come risultato hanno portato al massacro di El-Fasher. Il piano del Quad, accolto con speranza a livello internazionale, è stato invece respinto da al-Burhan, che ha ribadito tramite il Ministero degli Esteri «che qualsiasi discussione sul futuro del Paese deve avvenire con la partecipazione esclusiva dei sudanesi, senza interferenze o imposizioni da parte di soggetti esterni». E se da una parte arriva un rifiuto a sedersi al tavolo delle trattative, dall’altra le RSF lasciano parlare le armi: nell’ultimo mese, con il culmine nel massacro di El-Fasher, il conflitto si è ulteriormente inasprito. Difficile immaginare che le potenze del Quad possano perseguire una pace reale mentre continuano a sostenere, ciascuna, uno dei due schieramenti.
In tutto questo, come sempre, a pagare il prezzo più alto sono i civili: centinaia di migliaia di persone che vivono l’inferno quotidiano della guerra. In questi due anni, i media occidentali hanno dedicato poche e frammentarie attenzioni al conflitto sudanese, e solo in occasione dei massacri più atroci, come quelli di El Geneina e del campo profughi di Zamzam. Sembra che, nonostante le urla che arrivano dal Sudan, la comunità internazionale scelga di voltarsi dall’altra parte. Gli unici che davvero desiderano la pace sono coloro che nella guerra non hanno interessi: i milioni di civili torturati, stuprati, rapiti e uccisi, mentre il conflitto continua per il volere di pochi potenti Paesi.




 
         
    
