Il Parlamento ha approvato in via definitiva il disegno di legge costituzionale che introduce la separazione delle carriere dei magistrati, uno degli storici cavalli di battaglia del centro-destra guidato da Silvio Berlusconi e ora del governo Meloni. La riforma, che modifica diversi articoli della Costituzione ed è stata fortemente promossa dal Guardasigilli Carlo Nordio, è al centro di un acceso dibattito in ambito politico e giuridico. Essendo una legge di revisione costituzionale, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione, non potrà essere promulgata prima che siano trascorsi tre mesi dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Se, in questo lasso di tempo, lo richiederanno almeno un quinto dei membri di uno dei due Rami del parlamento, 500mila elettori o cinque Consigli regionali, la riforma verrà sottoposta a referendum confermativo e dunque a decidere sulla sua entrata in vigore saranno direttamente i cittadini. Un destino che, numeri alla mano, appare sostanzialmente scontato.
I due Consigli Superiori
Il cuore della riforma è rappresentato dalla netta distinzione, a livello costituzionale, tra la carriera dei magistrati giudicanti (coloro che emettono sentenze) e quella dei magistrati requirenti (il Pubblico Ministero che svolge l’azione penale). Con le modifiche all’articolo 104 della Costituzione, si stabilisce che, al posto dell’attuale Consiglio Superiore della Magistratura unico, ne vengono istituiti due: il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente. Entrambi, come oggi accade con il CSM, saranno presieduti dal Presidente della Repubblica. La composizione prevede, di diritto, il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Corte di Cassazione rispettivamente per il CSM giudicante e requirente. Una delle novità più importanti riguarda il sistema dell’elezione diretta da parte dei magistrati, attualmente in vigore per la componente “togata” del CSM, che lascia posto al meccanismo del sorteggio. I due terzi dei componenti CSM della magistratura giudicante saranno infatti estratti a sorte tra i magistrati giudicanti, mentre i due terzi dell’altro CSM saranno estratti dalla lista dei magistrati requirenti. L’altro terzo dei membri, in entrambi i casi, sarà estratto da un elenco di professori universitari e avvocati con almeno 15 anni di esperienza, compilato dalle Camere in seduta comune. A detta dei promotori della riforma, il sorteggio mira a depoliticizzare le scelte e a superare il cosiddetto “governo delle correnti”; secondo i critici, affidare il governo della magistratura alla casualità potrebbe avere effetti deleteri sulla qualità delle decisioni.
L’Alta Corte Disciplinare
Anche l’articolo 105 della Costituzione viene riscritto. La giurisdizione disciplinare sui magistrati, oggi affidata in prima istanza al CSM e in appello alla Corte di Cassazione, viene infatti presa in carico da un nuovo organo, l’Alta Corte disciplinare. La sua composizione è mista, vedendo la presenza di 6 membri “laici”. Una metà è nominata dal Capo dello Stato, mentre gli altri 3 vengono estratti a sorte da un elenco di professori e avvocati con almeno 20 anni di esperienza compilato dal Parlamento. Vi sono poi 9 membri “togati”, nello specifico 6 magistrati giudicanti e 3 requirenti. Essi vengono sorteggiati tra coloro che hanno almeno 20 anni di servizio e hanno svolto funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione. Il mandato dei giudici dell’Alta Corte, che non sono rieleggibili, dura 4 anni. Contro le pronunce del nuovo organismo è consentito un solo grado di appello, sempre dinanzi alla stessa Alta Corte, ma con un collegio diverso da quello che ha emesso la pronuncia di primo grado.
Un “problema” che non c’è
Un dato di fatto messo sul tavolo da critici e osservatori è che una sostanziale separazione delle carriere, in realtà, nell’ordinamento italiano è già presente, rendendo la riforma costituzionale in questione una “soluzione” a un problema in gran parte inesistente. I cosiddetti passaggi di funzione, infatti, sono un fatto assai raro, e a confermarlo sono i dati: analisi su periodi pluriennali mostrano che, mediamente, i cambi di funzione si contano in poche decine l’anno rispetto a un organico di migliaia di magistrati. Nel 2006, la riforma Castelli ha infatti stabilito un limite massimo di quattro passaggi in carriera, rendendoli peraltro molto più problematici a livello logistico. Un giudice che vuole diventare pubblico ministero, o viceversa, deve infatti spostarsi in un altro distretto di Corte d’Appello, che peraltro non può essere quello che ha competenza sui reati commessi dai magistrati del proprio (costringendolo dunque a trasferirsi in un’altra regione, che spesso non può essere nemmeno quella confinante). Tra il 2011 e il 2016, tali passaggi hanno coinvolto rispettivamente lo 0,21% dei requirenti e lo 0,83% dei giudicanti. A infliggere il colpo finale è stata, nel 2022, la riforma Cartabia, che ha ridotto il numero massimo dei “traslochi” da quattro a uno, che deve essere obbligatoriamente messo in atto nei primi dieci anni di servizio. Per questo motivo chi contesta la riforma costituzionale afferma che essa incida soprattutto sul governo della magistratura (duplicazione dei CSM, nuove regole disciplinari) più che su una reale novità sostanziale nella quotidianità degli uffici: la separazione proposta formalizza e irrigidisce una distinzione che, in larga parte, già si dava per consolidata nei fatti.
L’incidenza sui processi
È cruciale sottolineare come questo provvedimento, per quanto epocale sotto il profilo dell’ordinamento giudiziario e del significato politico ad esso attribuito da promotori e detrattori, non contenga alcuna disposizione diretta finalizzata ad accelerare lo svolgimento dei processi, vero nodo problematico della giustizia nel nostro Paese. La separazione delle carriere e la riforma del governo della magistratura impattano infatti sul versante strutturale e organizzativo, riguardando le carriere dei magistrati, la loro governance (CSM) e il sistema disciplinare, ma non toccano le regole processuali (penali, civili o amministrative) che determinano la durata concreta di un’udienza o di un procedimento. Nello specifico, non si interviene sui fattori che tradizionalmente provocano i ritardi processuali: la cronica carenza di personale (magistrati e ausiliari), l’insufficienza di risorse materiali, la complessità burocratica delle procedure, il carico eccessivo di cause, gli effetti della prescrizione sul numero dei ricorsi.
Il referendum
Nei prossimi mesi, è praticamente certo che il provvedimento verrà sottoposto ai cittadini, che saranno chiamati alle urne per un referendum confermativo. Esso è lo strumento previsto dall’art. 138 della Costituzione per presentare al corpo elettorale una legge di revisione costituzionale approvata in seconda lettura con maggioranza assoluta, ma non con la maggioranza qualificata dei due terzi. Dovranno chiedere la consultazione un quinto dei membri di una Camera, 500mila elettori o cinque consigli regionali, e tecnicamente la richiesta dovrà essere presentata nei termini e nelle forme previste dalla legge n.352/1970; l’Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione verifica la regolarità delle sottoscrizioni e la legittimità delle istanze prima che l’esecutivo proponga al Presidente della Repubblica l’indizione della consultazione, formalizzata con decreto presidenziale. Differentemente da quanto accade con i referendum abrogativi, il referendum confermativo non richiede un quorum di partecipazione. La norma entra in vigore se ottiene la maggioranza dei voti validi espressi, qualunque sia l’affluenza alle urne.




 
         
    

Tante storie per meno di niente😂