I bambini della Striscia di Gaza continuano a portare sulle proprie spalle il peso più grave del conflitto: quasi due anni di bombardamenti israeliani, culminati nell’ultima operazione di terra condotta dall’esercito, hanno trasformato scuole, quartieri e ospedali in macerie, privando un’intera generazione di sicurezza, assistenza e futuro. Come se non bastassero la devastazione e la carestia, secondo l’International Rescue Committee (IRC) –un’organizzazione non governativa globale di aiuto umanitario, fondata nel 1933 come International Relief Association, su richiesta di Albert Einstein – Gaza è oggi il luogo con il più alto numero di bambini amputati pro capite al mondo. Dall’inizio della guerra, i casi stimati raggiungono quota 4.000, un dato che racconta da solo la portata della tragedia in atto. «Si tratta di bambini che hanno perso gli arti, che si svegliano urlando a causa degli incubi, che non si sentono più al sicuro nemmeno nelle loro famiglie. I nostri team stanno facendo tutto il possibile per supportarli, ma senza un accesso sicuro e senza forniture di base, il loro recupero rischia di bloccarsi completamente», spiega Ciarán Donnelly, vicepresidente senior dell’IRC.
Le cause vanno ricercate nei bombardamenti incessanti, nelle esplosioni che colpiscono aree civili, nella distruzione degli ospedali e nell’impossibilità di garantire cure tempestive e adeguate. Le organizzazioni umanitarie segnalano un aumento vertiginoso dei casi di bambini colpiti da schegge e ferite gravi, in un contesto già segnato dalla fame crescente e dalla carenza cronica di risorse mediche. Il prezzo pagato dai minori non si misura solo nelle amputazioni e nelle mutilazioni permanenti. A ogni ferita visibile se ne affiancano altre invisibili: ansia, incubi ricorrenti, aggressività, paura costante. L’infanzia viene violata due volte, nel corpo e nello spirito. Molti bambini, incapaci di camminare o costretti a convivere con disabilità permanenti, si trovano spinti a mendicare o a lavorare per sopravvivere. La scarsità di protesi, la mancanza di personale sanitario qualificato e la distruzione delle strutture ospedaliere rendono la riabilitazione un miraggio. A questo si somma la malnutrizione diffusa: decine di migliaia di bambini sotto i cinque anni sono a rischio di denutrizione acuta e intere aree della Striscia vivono già in condizioni assimilabili alla carestia. La valutazione dell’IRC condotta il mese scorso tra 469 famiglie sfollate a Gaza City, Deir El Balah e in alcune zone di Khan Younis ha rilevato che un bambino su tre sotto i tre anni non aveva mangiato nulla nelle 24 ore precedenti l’indagine, mentre quasi tre quarti delle famiglie con bambini piccoli hanno riportato segni visibili di malnutrizione.
Dati che collimano con quelli dell’ONU che ha dichiarato ufficialmente lo stato di carestia nella Striscia di Gaza, usando la classificazione IPC (Integrated Food Security Phase Classification), un organismo sostenuto dalle stesse Nazioni Unite che si occupa di monitorare i livelli di fame nel mondo. Circa 514.000 persone – quasi un quarto della popolazione – soffrono di gravi carenze alimentari, con 280.000 nella sola Gaza settentrionale. Per qualificare la carestia, è richiesto che almeno il 20% della popolazione subisca penuria estrema di cibo, che un bambino su tre sia malnutrito acutamente e che due persone su 10.000 muoiano ogni giorno per fame o malattie correlate. La fame, insieme alle ferite, aggrava ogni quadro clinico e riduce le prospettive di sopravvivenza. I numeri forniti dall’IRC e condivisi anche dall’UNRWA non rappresentano semplici statistiche, ma il segnale di un futuro negato. Il richiamo delle agenzie umanitarie è chiaro: senza un cessate il fuoco e senza un incremento immediato degli aiuti, le conseguenze sui bambini di Gaza saranno irreversibili. La guerra non solo produce amputazioni e lutti, ma genera traumi destinati a trasmettersi alle generazioni future, minando la stabilità psicologica e sociale dell’intera comunità. Ogni giorno di conflitto aggiunge nuove cicatrici a una popolazione infantile che ha già perso la propria infanzia.