L’Agenzia europea delle sostanze chimiche ha rivisto la proposta di restrizione sui PFAS, le sostanze chimiche “eterne” che accumulandosi nell’ambiente e negli organismi umani provocano gravi danni alla salute, escludendo otto interi settori produttivi dal divieto, rinviandoli a una fase successiva, senza date precise. Si apre così la strada a deroghe che ne riducono drasticamente la portata. È un passo indietro rispetto alle ambizioni annunciate nel 2023, quando Bruxelles, su impulso di cinque Stati membri e con il supporto tecnico dell’ECHA, aveva promesso una delle restrizioni più ampie mai concepite sotto il regolamento REACH (la normativa europea che mira a migliorare la protezione della salute umana e dell’ambiente dai rischi delle sostanze chimiche): il divieto quasi totale dei PFAS. Era stato annunciato un intervento risolutivo, accompagnato da una consultazione pubblica senza precedenti. Citando come ragioni principali i limiti di tempo e il Piano d’azione per l’industria della Commissione europea di luglio, la giustificazione formale di questo compromesso è che mancherebbero alternative affidabili in quei settori, ma la percezione diffusa è che l’agenzia abbia ceduto alle pressioni dell’industria, con il rischio di compromettere l’efficacia dell’intera normativa, rinviando a data da destinarsi la regolamentazione di comparti ad alto impatto ambientale.
Le categorie rimosse coprono aree strategiche e ad alta intensità di consumo chimico. Si tratta delle applicazioni di stampa, come inchiostri e rivestimenti; delle sigillature, fondamentali in edilizia e nell’industria pesante; dei macchinari, dove i PFAS vengono impiegati per ridurre attriti e usura; degli esplosivi, sia civili sia militari; delle forniture per la difesa, che comprendono rivestimenti e componenti ad alte prestazioni; dei tessili tecnici, usati ad esempio per abbigliamento da lavoro o dispositivi di protezione; delle applicazioni industriali più ampie, come solventi e catalizzatori; e infine di alcuni usi medici, inclusi imballaggi immediati e materiali di rilascio di farmaci. Settori che, secondo l’organizzazione ambientalista svedese ChemSec, rappresentano non eccezioni marginali, ma fonti consistenti di inquinamento. Parallelamente, il nuovo documento dell’ECHA non si limita a rinvii, ma apre spazi di deroga anche nei comparti rimasti dentro la restrizione. Tre scenari sono allo studio: il primo prevede un divieto completo con appena diciotto mesi di transizione; il secondo introduce esenzioni temporanee, tra cui cinque anni aggiuntivi per il packaging alimentare in plastica e per le superfici antiaderenti industriali; il terzo consente l’uso laddove le emissioni possano essere “strettamente controllate”, una formulazione che lascia ampio margine interpretativo.
ChemSec non ha usato mezzi termini. Per l’organizzazione, l’aggiornamento dell’ECHA rappresenta «un disastro» perché frammenta la restrizione, ne svuota la portata e rischia di premiare proprio quei settori che non hanno investito in alternative più sicure. L’ONG sottolinea come migliaia di cittadini, associazioni e imprese abbiano partecipato alla consultazione pubblica chiedendo un bando ambizioso, e come queste richieste siano state sostanzialmente ignorate. Il rinvio degli otto settori, unito alla possibilità di deroghe prolungate, mina la credibilità stessa dell’Unione europea come leader nella lotta all’inquinamento chimico. Questa decisione premia, inoltre, le industrie che hanno omesso informazioni durante la consultazione pubblica e penalizza invece le aziende lungimiranti che hanno già investito nella sostituzione dei PFAS in queste otto categorie di utilizzo aggiuntive. Le prossime tappe sono già fissate: entro il 2026 i comitati scientifici dell’ECHA dovranno esprimersi, ma la decisione finale spetterà alla Commissione e non arriverà prima del 2027. Nel frattempo, i PFAS continueranno a diffondersi. L’Italia conosce bene la portata del problema: ad Alessandria, come già accaduto in Veneto, il sangue dei cittadini risulta contaminato dai composti prodotti da Solvay, con conseguenze che vanno dall’aumento delle patologie tiroidee e tumorali fino a disturbi dello sviluppo nei bambini. La multinazionale ha prodotto per anni composti fluorurati, scaricandoli nel fiume Bormida e contaminando la falda. In Veneto, a giugno 2025, una sentenza storica ha condannato fino a 17 anni di carcere i dirigenti della Miteni, riconoscendone le responsabilità nella contaminazione che ha colpito oltre 350 mila persone: un verdetto che dimostra come i tribunali, quando la politica esita, possano intervenire a sancire la gravità dei crimini ambientali. Ogni deroga, ogni rinvio, ogni concessione all’industria significa prolungare l’esposizione quotidiana di milioni di persone. Di fronte a questo scenario, l’allentamento delle restrizioni appare come una resa politica che sacrifica la salute dei cittadini europei agli interessi economici di pochi gruppi industriali. Una resa che rischia di pesare per generazioni, perché i PFAS, una volta dispersi nell’ambiente, restano lì per sempre.