martedì 9 Settembre 2025

Un rapporto ONU ha definito la gestazione per altri una “violenza globale”

L’ultimo rapporto della relatrice speciale ONU contro la violenza di genere si concentra specificamente sulla gestazione per altri (GPA), ovvero la pratica per la quale una donna si assume l’obbligo di portare a termine una gravidanza per conto di una coppia sterile, impegnandosi poi a consegnarle il nascituro. Nel rapporto, la relatrice definisce la pratica come una violenza che riguarda tutte le parti in gioco e, in particolare, le madri surrogate. Trattandosi spesso di donne giovani o giovanissime provenienti da Paesi poveri o contesti economici svantaggiosi, queste sono spesso prive di ogni forma di tutela e si trovano a subire forme di violenza tanto psicologica, quanto economica, fisica e riproduttiva. Di fatto, scrive la relatrice speciale, la GPA replica rapporti di forza impari di matrice razzista e post-coloniale, nei quali coppie occidentali facoltose pagano per una pratica che compromette il benessere delle gestanti, fino a metterne a rischio la vita stessa. Tuttavia, come esplicitamente riportato nel rapporto, il fattore di rischio primario per le donne rimane, come in molti altri contesti, l’assenza di una normativa chiara e definita, che non lasci spazio a zone grige e, quindi, a pratiche di sfruttamento.

Un mercato in crescita

L’approccio alla GPA varia enormemente a seconda dei contesti: mentre alcuni Paesi (tra i quali l’Italia) hanno criminalizzato in toto la pratica, altri la ammettono tanto in forma commerciale (la madre surrogata riceve un compenso che va oltre il rimborso delle spese mediche) quanto altruistica (la pratica viene portata a termine a titolo gratuito, garantendo alla gestante solamente il rimborso delle spese mediche). In ogni caso, segnala la relatrice Reem Alsalem, la richiesta di GPA nel mondo è in costante aumento a causa dell’aumento di coppie sterili o che, per motivi personali, scelgono di non voler portare a termine una gravidanza. La copertura mediatica crescente, inoltre, sta facendo sì che sempre più donne ne vengano a conoscenza. Si tratta di un mercato talmente prolifico che si prevede che, dai 15 milioni di dollari attuali, entro il 2033 arriverà a valere quasi 100 milioni. Tuttavia, nei contesti in cui la pratica avviene dietro percezione di un compenso, i contorni che la regolano sono spesso porosi e lasciano spazio ad una lunga serie di violenze che coinvolgono in primo luogo la gestante, ma anche le coppie committenti e i bambini stessi. La dinamica è pressochè sempre la stessa: coppie di persone facoltose che cercano madri surrogate in Paesi dove la pratica è consentita – per lo più zone del mondo in condizioni economiche svantaggiate.

A rendere problematica la pratica è, innanzitutto, la scarsissima mole di studi circa gli effetti della GPA sulle parti in causa. Se da un lato si sottovaluta il peso sociale dell’infertilità sulle madri committenti, che spesso sono soggette a pressioni esterne in merito al compimento di quello che viene percepito come il loro ruolo sociale primario (diventare madre, per l’appunto), dall’altro non si sono indagate a sufficienza le conseguenze, sul nascituro, della separazione prematura dalla madre partoriente, fattore che potrebbe avere un impatto sul suo sviluppo futuro. Secondo il rapporto, infatti, gli studi disponibili mostrano che i bambini concepiti con GPA spesso nascono prematuri e con peso inferiore alla media, oltre ad essre maggiormente a rischio di difetti congeniti.

Molteplici forme di violenza

Ma è sulle madri surrogate che si riversano le conseguenze più gravi della GPA dietro compenso. La violenza è, in primo luogo, economica: secondo il report, infatti, sono i mediatori a guadagnare la cifra maggiore dalla transazione, mentre le madri surrogate (spesso donne giovani o giovanissime, che hanno già avuto un figlio e si trovano in condizioni di necessità economica) ricevono una cifra che va dal 10% al 27,5% del totale pagato dai genitori. Le madri non vengono inoltre informate in maniera adeguata circa il disagio arrecato dalle iniezioni quotidiane di ormoni, delle complicazioni legate all’anestesia e della complessità emotiva di rinunciare a un figlio biologico, oltre che dei rischi per la salute derivanti dall’assunzione di un elevato numero di farmaci che permettano un esito positivo della fecondazione. Molte delle madri surrogate, inoltre, hanno riferito di non aver ricevuto assistenza medica adeguata dopo la donazione. Questo si verifica, in particolare, in Paesi poveri come il Nepal o l’India, dove i cesarei vengono organizzati senza tener conto delle difficoltà post-operatorie che possono riguardare le donne, soprattutto quelle povere residenti in zone rurali. I rischi si moltiplicano quando le donne provengono da Paesi senza una regolamentazione sulla GPA, che rende più frequente l’accesso a pratiche clandestine che mettono a rischio la vita delle gestanti. Di contro, segnala la relatrice, negli Stati dove la GPA è permessa la procedura assume per lo più la forma di un accordo tra privati, nella quale lo Stato è di fatto assente – fattore che lascia le madri surrogate senza tutele.

«Negli accordi commerciali di maternità surrogata – scrive la relatrice – viene attribuito un valore monetario alla capacità delle donne di concepire e dare alla luce bambini sani, il che rafforza gli squilibri di potere dannosi in cui le persone e le entità con maggiori mezzi economici esercitano il controllo sulla capacità delle donne di rimanere incinte e partorire». In questo contesto si promuove anche un linguaggio disumanizzante nei confronti della madre, che diventa «matrice» o «utero in affitto» o «incubatrice che sviluppa cellule».

Per tutti questi motivi, scrive la relatrice, la GPA è da configurarsi come una pratica di sfruttamento e violenza contro le donne e i bambini, che «mercifica il corpo delle donne ed espone le madri surrogate e i bambini a gravi violazioni dei diritti umani». Per questo, raccomanda ai governi che la pratica sia vietata a livello universale e che siano prese tutte le misure necessarie per impedire che vi si faccia ricorso. Nel rapporto viene fatto l’esempio dell’Italia, che lo scorso hanno ha dichiarato la GPA «reato universale», che mira a criminalizzare l’accesso alla pratica anche all’estero – una legge secondo molti giuristi fumosa e imprecisa dal punto di vista tecnico.

I problemi di una regolamentazione assente

Da quanto si evince dal rapporto, tuttavia, a costituire un problema centrale è la mancanza di una regolamentazione chiara e specifica, che tuteli le donne in maniera adeguata. Il fatto che quello della GPA costituisca un mercato in crescita e le possibilità economiche che ne derivano indicano che le donne vi fanno sempre più accesso, a prescindere dalla legalità o meno della pratica. E al di là dei giudizi di valore, la monetizzazione del proprio corpo è da tempo prassi comune nell’attuale sistema economico capitalistico – basti pensare al sex work: dove regolamentato, ha ridotto di molto il rischio di sfruttamento delle donne. Parlare di «mercificazione del corpo della donna», inoltre, allontana l’idea che si tratti di una libera scelta della donna. Come dimostrato in molti altri ambiti (si pensi alla prostituzione, ma anche al consumo di droghe o all’aborto), la criminalizzazione non si è mai dimostrata una scelta vincente nella risoluzione del problema. A dimostrarlo vi è il fatto che, come riportato nello stesso report dell’ONU, le donne cercano di avervi accesso anche nei Paesi dove la pratica è considerata illegale, rischiando solamente di incorrere in maggiori rischi per la propria salute poichè non adeguatamente tutelate.

Va sottolineato, inoltre, come in molti Paesi – Canada, Danimarca, Paesi Bassi, Gran Bretagna, India, Ungheria, Cipro, Israele e Australia, oltre che in diversi Stati USA – la pratica sia autorizzata esclusivamente in forma altruistica, ovvero senza prevedere compenso per la gestante (solamente il rimborso delle spese mediche). Sembra una contraddizione, in questo caso, applicare i concetti di coercizione e mercificazione del corpo della donna, dal momento che la pratica si sottrae a qualsiasi intento economico.

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Valeria Casolaro

Ha studiato giornalismo a Torino e Madrid. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, frequenta la magistrale in Antropologia. Prima di iniziare l’attività di giornalista ha lavorato nel campo delle migrazioni e della violenza di genere. Si occupa di diritti, migrazioni e movimenti sociali.

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