mercoledì 22 Ottobre 2025

Classismo ambientale: come l’inquinamento colpisce poveri e minoranze

Spesso si è portati a credere che l’inquinamento, non avendo confini da rispettare, colpisca tutti allo stesso modo e che le conseguenze della devastazione ambientale si riflettano nella medesima maniera sulla vita di tutti. Tuttavia, le cose non stanno proprio così. Se è vero che una nube tossica viaggia nell’aria senza badare a niente se non a dove spira il vento, è altrettanto vero che non tutti sono attrezzati allo stesso modo per difendersi. Se si considerano i siti di produzione o smaltimento, esistono enormi differenze tra gli Stati cosiddetti sviluppati e quelli in via di sviluppo o sotto-sviluppati. Variano le regolamentazioni e variano le situazioni economiche e sociali che producono, o non producono, le regolamentazioni stesse. Gli Stati in condizioni economiche svantaggiose sono inoltre soggetti a depredazione delle risorse e inquinamento in cambio di misure di compensazione irrisorie. I rapporti di forza, che siano economici, politici o sociali, sono un fattore importante per capire come si redistribuiscono gli effetti indesiderati del capitalismo e dell’inquinamento.  

La nascita del movimento ambientale 

Negli Stati Uniti, il conflitto ambientale esplose in tutta la sua coscienza nel 1982. L’allora governatore della Carolina del Nord, James Hunt, decise di ubicare un deposito di rifiuti di PBC (policlorobifenili) nella cittadina di Afton, nella contea di Warren, abitata per il 60% da afroamericani, la maggior parte dei quali al di sotto della soglia di povertà. Questa decisione scatenò la reazione della popolazione locale che dette vita a una resistenza pacifica diretta contro i camion che portavano il materiale alla discarica. In breve, fu chiaro che il razzismo aveva anche delle conseguenze ambientali, direttamente connesse a determinate decisioni politiche e amministrative. Fu in questo periodo che le lotte contro il razzismo ambientale assunsero una dimensione nazionale e iniziò a prendere forma il movimento per la giustizia ambientale. 

Tre anni prima dei fatti di Afton, un’aspra lotta contro una discarica interessò un quartiere sub-urbano di Houston, Texas. In questa circostanza i residenti, in gran parte afroamericani, si unirono insieme formando il NECAG, Northeast Community Action Group. Qui i cittadini intentarono causa contro la costruzione del sito inquinante nel loro quartiere tramite una class-action ai sensi della legge sui Diritti Civili del 1964. Si trattò della prima causa di questo genere: per la prima volta, in ambito giudiziale, si faceva uso della legge sui diritti civili per una questione che avesse a che fare con l’ambiente.

Uno dei leader storici del movimento per la giustizia ambientale è Benjamin Chavis, afroamericano, attivista per i diritti civili, assistente di Martin Luther King jr. negli anni delle lotte per i diritti degli afroamericani. Negli anni Ottanta fu lui a coniare il termine “environmental racism(razzismo ambientale), che indicava la discriminazione su base razziale nello scegliere i siti ove depositare i rifiuti tossici della lavorazione industriale nonché per lo sfruttamento delle risorse, a danno di minoranze etniche e comunità minori. 

Benjamin Chavis jr. , afroamericano, attivista per i diritti civili, assistente di Martin Luther King jr. negli anni delle lotte per i diritti degli afroamericani. Negli anni Ottanta fu lui a coniare il termine ”razzismo ambientale” [foto di United Church of Christ]

L’ecologismo che caratterizza il movimento per la giustizia ambientale ha dunque radici nelle rivendicazioni sociali ed è caratterizzato dal fatto che le sue lotte sono contro l’ingiustizia sociale che regna negli Stati Uniti. «La giustizia ambientale lotta contro l’assegnazione sproporzionata di rifiuti tossici o l’esposizione a diverse forme di rischi ambientali in zone prevalentemente abitate da afroamericani, latinoamericani e indigeni. Il linguaggio utilizzato non fa riferimento a esternalità non compensate bensì alla discriminazione razziale… il movimento organizzato dalla giustizia ambientale non proviene dalla tradizione ambientalista, ma dal movimento per i diritti civili», scirve l’economista J.M. Alier nel suo libro, Ecologia dei poveri.

Stati Uniti: il razzismo ambientale nel DNA

Veduta aerea di “Cancer Alley”, una distesa di fabbriche e ciminiere tra Baton Rouge e New Orleans, Louisiana, U.S.A.

L’analisi e lo studio del fenomeno ambientale in chiave sociale devono tener conto delle molte sfaccettature e della complessità dei fattori che lo caratterizzano. Al di fuori del sistema internazionale di sfruttamento capitalistico, gli Stati Uniti offrono un esempio lampante di come si strutturi e si configuri il razzismo ambientale internamente a uno Stato. Carolyn Merchant si è concentrata sulle origini storiche del rapporto tra “razza” e ambiente, individuando la connessione negativa che con il tempo è andata strutturandosi all’interno della società statunitense tra la razza e la città, la razza e il deserto, la razza e le sostanze tossiche. Secondo Merchant, è impossibile scollegare il razzismo ambientale dalla schiavitù dei neri e dal degrado ecologico prodotto con metodi di sfruttamento interconnessi, che legano l’asservimento umano (la schiavitù) con l’asservimento della terra (le piantagioni, ovvero, monocolture intensive e/o estensive). Altrettanto impossibile è non connettere la storia dei nativi americani al razzismo ambientale: questi vennero infatti rimossi dalle loro terre per essere rinchiusi nelle riserve e, una seconda volta, quando vennero poi creati i parchi e le foreste nazionali. Merchant afferma che, se si osserva la storia degli Stati Uniti, si vedrà come questa abbia proceduto fino a rafforzare il razzismo, anziché sminuirlo, tanto da farlo divenire razzismo istituzionalizzato. Il primo importante documento che ha attestato le discriminazioni eco-razziali è del 1983: il rapporto GAO, svolto dall’ufficio di contabilità generale degli Stati Uniti (General Accountable Organization), aveva lo scopo di verificare la correlazione tra l’appartenenza etnica e lo stato economico delle comunità di riferimento. Lo studio, effettuato nella cosiddetta “regione 4” (formata da otto Stati del Sud: Alabama, Florida, Georgia, Kentucky, Mississippi, Carolina del Nord, Carolina del Sud e Tennessee), rivelò che tre delle quattro discariche di rifiuti pericolosi presenti nella regione si trovavano in comunità prevalentemente afroamericane, benché il totale della popolazione afroamericana della regione fosse del 20%. 

La discriminazione abitativa spesso rende difficile trovare soluzioni alternative a costi sostenibili per queste persone. Le industrie inquinanti sono attratte dai quartieri e dalle zone povere perché il valore della terra, il costo del lavoro e altri fattori di business sono inferiori. Queste compagnie nazionali e multinazionali cercano di posizionarsi laddove il potere politico della comunità è di scarso peso o inesistente. Come fa notare Weintraub, e come è facilmente intuibile, le aree dove vivono le persone a più alto reddito di solito hanno più successo nel prevenire o controllare l’ingresso di industrie inquinanti nelle loro comunità. Infatti, il loro peso nell’influenzare il dibattito politico è maggiore rispetto alle minoranze etniche e a coloro che hanno un basso reddito. Per i ceti medio-alti, per la stragrande maggioranza composti da persone bianche, è più facile opporsi e vincere la battaglia. Nel peggiore dei casi per loro è sempre possibile riuscire a spostarsi in una nuova situazione abitativa. Vi è un ricatto economico che si estende su più fronti. Molte imprese sfruttano la depressione economica dei luoghi dove si vogliono installare cercando di fare leva sulla promessa di posti di lavoro e, dunque, di salari con cui sfamare la propria famiglia. 

Louisiana: “Il corridoio del cancro”

Il profondo Sud degli Stati Uniti porta ancora con sé un bagaglio pesante sulle proprie spalle: il retaggio della schiavitù. Per questo motivo, e per molti altri a esso collegati, il sud è sempre stato economicamente e socialmente più arretrato. La ferocia della mentalità coloniale getta ancora la sua ombra su questo vasto territorio e la Louisiana ne è l’esempio più lampante. Proprio lì, tra New Orleans e Baton Rouge, si trova la “Cancer Alley” (“il corridoio del cancro). Qui, in 137 chilometri quadrati di territorio esteso lungo le sponde del fiume Mississippi, si concentrano oltre 200 raffinerie e impianti petrolchimici. Da una dozzina di anni a questa parte, la Cancer Alley rappresenta il 25% della produzione petrolifera statunitense. Fin dagli anni Settanta l’EPA, l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, monitora la forte concentrazione di inquinamento ambientale di quella che gli attivisti chiamano “zona di sacrificio”, in cui i tassi di malattia sono di gran lunga superiori alla media nazionale. La concentrazione di popolazione afroamericana nella regione era evidente fin dal principio delle installazioni industriali e delle proteste. Solo nel 2022, però, l’EPA ha rilevato di aver trovato prove significative che le azioni e/o le inazioni dei regolatori della Louisiana hanno portato e continuano a comportare una serie di impatti negativi sui residenti afroamericani che vivono nella Cancer Alley. Oltre le conseguenze ambientali e sanitarie prodotte direttamente dalla produzione industriale, ci sono poi quelle derivanti da incidenti e catastrofi naturali. La zona in questione, abbastanza vicina al Golfo del Messico, è soggetta a violenti uragani.  

Vista aerea di Church Rock, New Mexico, dove nel 1979 il crollo di un bacino della United Nuclear Corporation riversò milioni di galloni di liquidi radioattivi nel Rio Puerco, contaminando le terre e le comunità Navajo circostanti

Nel 2005, l’uragano Katrina ha causato la fuoriuscita in acqua di quasi 11 milioni di galloni di petrolio. Nel 2020, l’uragano Laura ha causato un incendio in un impianto che produceva sostanze chimiche per piscine, che ha portato alla bruciatura di gas cloro per tre giorni. Uno dei maggiori impatti ambientali si è verificato quando l’uragano Ida ha colpito nel 2021. Il percorso previsto della tempesta era attraverso la regione industriale. La minaccia della distruzione dell’uragano ha fatto sì che le industrie situate a Cancer Alley adottassero la tecnica del flaring, ovvero il rilascio e la bruciatura intenzionale di sostane chimiche e gas nell’aria. Per ragioni di sicurezza, in caso di emergenza, il suo utilizzo è del tutto legale. In quell’occasione, dopo l’uragano, i residenti non  solo hanno avuto le case danneggiate ma anche più inquinamento nell’aria e nell’acqua rispetto al “normale” (già molto elevato). 

I nativi americani e il razzismo ambientale

Gregory Hooks e Chad L. Smith hanno descritto due distinti processi che collegano la situazione abitativa alla localizzazione di siti inquinanti e pericolosi. Il primo è quel processo abitativo di carattere escludente che altri autori hanno riportato e di cui abbiamo discusso precedentemente, e che i due studiosi chiamano “treadmill of production”, ovvero, il tapis roulant della produzione: la quotidianità fatta dal mercato i cui processi economici indirizzano, schermano, filtrano ed escludono le minoranze etniche. Si tratta della situazione di apartheid descritta da Bullard, prodotta dalle forze economiche con la collaborazione delle istituzioni governative: è il razzismo istituzionalizzato della società statunitense.

I cosiddetti indiani sono stati (e sono tutt’ora) sottoposti a un altro tipo di quotidianità, ovvero quello che gli autori chiamano “treadmill of destruction“, “tapis roulant della distruzione”. La distruzione a cui si fa riferimento è quella prodotta dalle attività militari dell’esercito statunitense. I due autori cercano di spiegare come l’inquinamento e il razzismo ambientale subìto dai popoli nativi siano il risultato dell’azione militare di un esercito di occupazione e di uno stato di invasione e colonizzazione. Le riserve indiane sono concentrate negli Stati dell’Ovest, troppo aride per essere coltivate o con climi troppo estremi per lo sviluppo della “civiltà” e dell’economia capitalista del tempo in cui vennero istituite (ancora si dovevano scoprire riserve di petrolio, gas, uranio e metalli vari). Ed è proprio per tale motivo che le basi e i siti militari sorgono in prossimità delle riserve dei popoli nativi. Dunque ciò è dovuto allo sviluppo storico delle sorti militari della colonizzazione dei nativi. Se nel XIX secolo gli insediamenti e le basi militari erano pressoché avamposti per controllare da vicino gli “indiani” e svolgevano la funzione di depositi e magazzini – così da non dover trasportare armi, munizioni e derrate alimentari – i siti e le basi militari del XX secolo divengono enormi complessi che fungono da depositi di armi e munizioni – del tutto diverse e di gran lunga più distruttive di quelle del secolo precedente – e da centri di addestramento permanente dell’esercito professionalizzato.

L’affermarsi dell’aviazione come forza strategica ha imposto la costruzione di grandi basi da dove poter far decollare gli aerei, ma non solo. Con la Seconda guerra mondiale si è avuta l’introduzione della chimica su vasta scala come arma di distruzione di massa, nonché, la scissione dell’atomo a scopo militare, ovvero, lo sviluppo della bomba atomica. Tali sviluppi della distruzione che l’Uomo può portare a sé medesimo e alla natura in cui vive, hanno prodotto il proliferare e l’ingrandimento sempre maggiore dei siti militari.

Nel complesso, i popoli nativi sono colpiti ambientalmente e socialmente dallo sfruttamento del suolo per l’estrazione mineraria, dai rifiuti radioattivi scarto della produzione di energia nucleare, così come dalla contaminazione radioattiva dall’estrazione di uranio per la sua produzione, ma anche dall’inquinamento radioattivo lasciato dalle esplosioni di bombe nucleari dei test militari. Oltre a ciò si aggiunge l’inquinamento prodotto da discariche di rifiuti tossici o solidi urbani e inceneritori, nonché dalla costruzione di oleodotti e gasdotti che non mancano mai di causare danni ambientali enormi. 

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Michele Manfrin

Laureato in Relazioni Internazionali e Sociologia, ha conseguito a Firenze il master Futuro Vegetale: piante, innovazione sociale e progetto. Consigliere e docente della ONG Wambli Gleska, che rappresenta ufficialmente in Italia e in Europa le tribù native americane Lakota Sicangu e Oglala.

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