L’infradito, o flip-flop, unisce un po’ tutti. Almeno nei mesi estivi, la tipica ciabatta in gomma avvicina gli esseri umani delle parti più disparate del globo con quel suo stile pratico che tanto ricorda i surfisti. Popolarissime anche per i prezzi popolari a cui si trovano molti modelli, ma allo stesso tempo adorate anche dai ricchi che ricercano uno stile casual e portate in passarella da diversa stilisti di grido (e nei negozi più chic con cartellini che possono arrivare a marcare 600 euro). Uno stile da spiaggia che si adatta anche in città, che va d’accordo con i costumi e anche con abiti più strutturati, meglio se accompagnati da una borsa importante. Quello con cui non vanno d’accordo, però, è l’ambiente: queste coloratissime icone estive nascondono svariati lati oscuri. E anche sulla salute, alla lunga, ci sono diverse controversie.
Storia di una ciabatta

Le infradito non sono certo un’invenzione dei tempi moderni. La storia di queste calzature risale a migliaia di anni fa, addirittura nell’antico Egitto. Le prime si hanno intorno al 4000 a.C., dove si indossavano comunemente sandali realizzati in papiro e foglie di palma. Uomini con indosso questi sandali compaiono persino su manufatti reali egizi, a dimostrazione dell’importanza sociale e simbolica di queste semplici calzature. Apparvero poi nell’antica Grecia, a Roma e in gran parte dell’Asia, reinterpretate con l’uso dei materiali locali: papiro in Egitto, legno in India, paglia di riso in Cina e Giappone, foglie di yucca in Messico e pelli di animali in Africa. Le differenze erano anche strutturali: mentre gli antichi greci indossavano la cinghia tra il primo e il secondo dito del piede, i romani optarono per il secondo e il terzo dito, mentre i mesopotamici usavano il separatore tra il terzo e il quarto.
Ad influenzare la forma moderna di queste calzature, però, sono stati due sandali tradizionali giapponesi: gli Zori piatti in paglia e i Geta rialzati in legno. Gli zori somigliano molto agli odierni sandali da spiaggia e sono diventati, nel tempo, un articolo di uso quotidiano in Giappone. L’esportazione vera e propria si deve ai soldati americani di stanza in Giappone durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, che riportarono in patria lo stile zori. Questi sandali, leggeri, economici e facili da indossare, apparvero presto nei negozi e diedero inizio a una tendenza globale.
Il vero boom si ebbe tra gli anni cinquanta e sessanta, periodo in cui le aziende occidentali, valutato il potenziale e la popolarità, iniziarono la produzione in serie di infradito di gomma. Associate spesso allo stile da spiaggia degli spensierati surfisti californiani, divennero subito icone di un certo tipo di moda estiva e di una vita rilassata. Anche il nome “flip flop” arriva nello stesso periodo, derivazione onomatopeica del suono che i sandali producono quando si cammina (soprattutto se bagnati), adottato in primis negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
Oggi le infradito sono realizzate in gomma, schiuma, pelle, sughero o plastica e vengono indossate ovunque. Marchi come il brasiliano Havaianas hanno contribuito a renderle popolari in tutto il mondo, con infinite varianti di stile e decorazioni. Le infradito sono e rimangono un simbolo di comfort, libertà e stile casual, indossate da miliardi di persone e continuamente reinventate da stilisti e case di moda.
Plastica, sostanze chimiche e danni ambientali
Pratiche, convenienti, comode, ma con un certo impatto ambientale. Le Infradito non sono così innocue come sembrano. Il loro apporto all’inquinamento non è trascurabile, dovuto principalmente sia ai materiali sia alle pratiche di smaltimento, che causano danni alla fauna selvatica e alla salute umana.
A partire dalla loro “esplosione”, la produzione di massa di queste calzature è realizzata in plastica sintetica, (poliuretano, PVC o EVA), tutti polimeri derivati dal petrolio che non sono biodegradabili. Anzi, persistono nelle discariche e negli oceani per centinaia di anni, decomponendosi in microplastiche che contribuiscono all’inquinamento degli oceani e minacciano la vita marina. Anche il loro processo produttivo non è del tutto innocuo: consuma risorse petrolifere ed emette gas serra, utilizza sostanze chimiche spesso tossiche che possono diffondersi nell’ambiente, influendo sugli ecosistemi.
Ed è proprio su questi che si ha l’impatto maggiore: come spesso succede, le infradito scartate e gettate anche dopo pochi utilizzi (magari una stagione sola o una singola vacanza) finiscono sulle spiagge con il rischio di essere ingerite da animali marini, causando soffocamento, fame o avvelenamento. Le sostanze chimiche disperse in fase di scomposizione, oltre che danneggiare fauna e ambiente, rischiano di arrivare agli esseri umani se entrano nella catena alimentare. Non è raro osservare intere spiagge in alcune regioni dell’Africa orientale totalmente ricoperte di flip flop, dove questi fiumi di plastica formato ciabatta si infilano nei corsi d’acqua, ostruendoli, uccidendo la flora e inibendo i cicli riproduttivi degli animali.
I pericoli per la salute umana

I rischi per la salute arrivano anche per l’uomo. Sostanze chimiche e tossine, come coloranti e ritardanti di fiamma, possono rappresentare un rischio sia per chi queste calzature le produce sia per gli utenti finali. Chimica, ma anche fisica: molti podologi avvertono che le infradito offrono pochissimo supporto plantare o ammortizzazione, aumentando il rischio di lesioni a piedi, caviglie e ginocchia. L’uso prolungato può portare a problemi come fascite plantare e tendinite, soprattutto in quei modelli progettati per la loro estetica più che per la funzionalità ergonomica. Ma alla Moda poco importa: sull’altare dello stile, la salute è più che sacrificabile!
E le infradito continuano ad essere le calzature più usate, con miliardi di pezzi venduti ogni anno, soprattutto nei paesi in via di sviluppo per via del loro prezzo di base assolutamente economico. Un prezzo basso che, come sempre, viene pagato da una filiera sfruttata con manodopera sottopagata e in condizioni di lavoro al limite del rischio.
Le alternative possibili
Per contrastare questo fenomeno, sono già in commercio alternative in materiali biodegradabili o riciclati, con un impatto notevolmente inferiore. Si passa da quelle realizzate in gomma naturale al 100%, biodegradabile e priva di plastiche nocive, proveniente da coltivazioni di gomma etiche (ad esempio, coltivazioni dello Sri Lanka che rispettano il commercio equo e solidale) a quelle in plastica riciclata, come quella oceanica, o le infradito scartate o il PVC riciclato, fino ad alcune varianti realizzate con materiali vegetali e rinnovabili, integrati con suole in sughero o pneumatici riciclati per un assorbimento degli urti e un’ammortizzazione naturali. Diverse sono prodotte in maniera etica con produzioni locali per una filiera più sostenibile.
Alcune aziende poi, si sono impegnate con programmi di riciclo per recuperare le loro infradito in gomma naturale per chiudere il ciclo dei rifiuti, promuovendo la moda circolare ma anche sostenendo progetti di upcycling. L’Organizzazione non governativa Ocean Sole, ad esempio, pulisce le spiagge e ricicla gli scarti delle infradito trasformandoli in opere d’arte, calzature, giocattoli, contribuendo a creare posti di lavoro ed opportunità economiche.
Nonostante i lati oscuri siano sempre più noti, le infradito sono state largamente viste sulle passerelle e promosse da celebrità e influencer, a dimostrazione di quanto la moda finga di tenere alla sostenibilità mentre nella pratica continua per la sua strada lastricata di rifiuti.