In Italia esistono lavoratori che a seguito di una malattia degenerativa o una disabilità rimangono incastrati in un limbo che non gli concede né il lavoro né la pensione. Anche se secondo le norme avrebbero diritto ad essere ricollocati in un ruolo che possono svolgere o a ricevere un sussidio. Vicende che diventano ancora più ingiuste perché segnate da un labirinto di burocrazia che lascia persone in carne ed ossa prive del diritto a sostenersi per ragioni come l’incomunicabilità tra diverse casse previdenziali e cavilli nei regolamenti INPS. È quanto denunciato da Giacomo, 54 anni, ex lavoratore parastatale affetto da una rara forma di distrofia muscolare che lo ha costretto sulla sedia a rotelle. Giacomo ha scritto a L’Indipendente per chiedere di raccontare la sua storia, e volentieri abbiamo scelto di farlo, perché non si tratta di una vicenda privata, ma di una questione di giustizia sociale che riguarda molte altre persone e che merita di ricevere attenzione.

Giacomo Catarci ha 54 anni ed è affetto da una rara forma di distrofia muscolare. Dopo aver servito lo Stato per quasi 20 anni, oggi si ritrova senza una pensione di inabilità: non perché non ne abbia diritto, ma perché un contraddittorio impianto normativo e burocratico glielo nega. Nonostante i limiti legati alla sua patologia, Giacomo ha lavorato fino al 2017 presso un’ente parastatale con cassa CPDEL. Poi il licenziamento: non per motivi di salute, ma in un taglio collettivo del personale, senza ricollocamento. Mentre era in NASPI (sussidio di disoccupazione), nel 2018 ha fatto domanda per la pensione di inabilità assoluta, prevista per i dipendenti pubblici con almeno 5 anni di contributi. Ma l’INPS – che nel frattempo ha assorbito l’INPDAP (contributi CPDEL) – gli ha opposto un rifiuto secco: «Manca il requisito del licenziamento per infermità». Giacomo ha dunque fatto causa all’INPS, ma si è visto respingere il ricorso dalla Corte dei Conti. E ora è in piena battaglia per i suoi diritti.
La storia di Giacomo è una vicenda che mette in luce le contraddizioni di un sistema pensionistico frammentato e contraddittorio nelle sue logiche normative. E dove, troppo spesso, a pagare il prezzo sono i più fragili. Nello specifico, Giacomo soffre di disferlinopatia (LGMD2B), patologia genetica neurodegenerativa che lo ha reso inabile totale dal 2009. Nonostante la malattia, ha continuato a lavorare fino al 2017 presso l’Associazione Allevatori, ente parastatale con cassa previdenziale CPDEL. Dopo il licenziamento, l’incredibile paradosso: da un lato non è stato protetto come un pubblico dipendente, ma «liquidato come un privato, senza possibilità di ricollocazione», come lui stesso denuncia a L’Indipendente; poi, dopo aver fatto domanda all’INPS per ottenere la pensione di inabilità assoluta – prevista dalla legge 335/95 per i dipendenti pubblici con almeno 5 anni di contributi – se l’è vista cassare «per la mancanza del requisito del licenziamento per infermità».
«Al momento del licenziamento non sono stato tutelato come dipendente pubblico, in quanto mi è stata negata la ricollocazione; al contrario, quando ho chiesto la pensione di inabilità, sono stato trattato proprio come un dipendente pubblico, all’insegna di regole più rigide. E quindi mi è stata rifiutata», racconta Giacomo. «Se invece fossi stato inquadrato come un dipendente privato, avrei potuto accedere con soli 5 anni di contributi, senza bisogno di un licenziamento ufficialmente legato alla malattia». Giacomo denuncia insomma una doppia ingiustizia: è stato equiparato ai privati per il licenziamento, ai dipendenti pubblici per la pensione. Subendo enormi svantaggi su entrambi i versanti.
A ogni modo, Giacomo non si è arreso. Ha fatto causa all’INPS, ma nel 2021 la Corte dei Conti ha respinto il ricorso, ribadendo che non ha diritto alla pensione di inabilità perché, quando è stato licenziato, il licenziamento era collettivo e non è avvenuto per infermità. Un anno dopo, ha presentato appello, ma lo scorso luglio è arrivata per lui l’ennesima bocciatura. «Ho i requisiti sanitari e contributivi, ma lo Stato mi dice di no per quello che, ai miei occhi, non può che apparire come un assurdo tecnicismo», racconta amareggiato. «La mia condizione di inabilità totale era già stata certificata nel lontano 2009, eppure, dopo 19 anni di lavoro, mi ritrovo senza lavoro e senza la pensione di inabilità. È giusto ricevere questo trattamento?», conclude.
Giacomo ora deve decidere se ricorrere in Cassazione, col rischio di vedersi nuovamente sbattere la porta in faccia. Il compito della Suprema Corte non è infatti quello riesaminare i fatti oggetto del contendere, ma verificare che la giurisdizione contabile abbia applicato correttamente le norme di diritto e rispettato le garanzie processuali. La strada è dunque lunga e tortuosa. Nel frattempo, la sua storia potrebbe diventare un caso simbolo per chiedere al Parlamento di modificare la normativa, allineando le regole per dipendenti pubblici, parastatali e privati.
Ricordando che l’articolo 38 della Costituzione Italiana recita quanto segue: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e disoccupazione involontaria”.
Le assurdità della cieca e stupida burocrazia di questo nostro Stato fallito, vengono lasciate senza mezzi per vivere persone più che bisognose e degne, mentre si sperperano soldi e risorse per guerre e armamenti e dannosi “farmaci miracolosi”. Una vergogna, non c’è altro da dire