Tre anni dopo l’avvio del Piano Italia 5G, la promessa di una connessione ultraveloce per tutti si è scontrata con la realtà: a un anno dalla scadenza fissata dal PNRR, è stato completato solo il 38,63% delle aree da coprire. Nonostante l’ottimismo ostentato dal Dipartimento per la trasformazione digitale, il rischio concreto è di perdere quasi 350 milioni di euro di fondi europei. Nel frattempo, i cantieri si muovono al rallentatore tra contenziosi legali e un braccio di ferro tra Inwit, cui è stato affidato il progetto, e i Comuni sul canone d’affitto per le antenne. In molte regioni si diffondono progressivamente le proteste dei comitati e delle associazioni, con la Regione Toscana che, lo scorso autunno, ha commissionato una ricerca per attestare i possibili danni sulla salute degli impianti.
L’obiettivo del piano è portare il 5G in 1.385 aree bianche, ossia quelle zone rurali o montane che non interessano ai privati per la loro scarsa redditività. Il progetto, gestito da un consorzio guidato da Inwit (partecipata da fondi come Ardian, Vodafone, Kkr e Global Infrastructure Partners), prevede l’installazione di 900 torri. Al momento, 259 sono attive, mentre 402 risultano «in lavorazione». Tuttavia, solo una parte di queste è effettivamente prossima alla conclusione. Il Dipartimento guidato dal sottosegretario Alessio Butti sostiene che l’80% dei lavori sia stato “sostanzialmente” completato, includendo nel computo i siti in fase avanzata. Ma i numeri ufficiali raccontano tutt’altro. Ad aggravare la situazione è lo scontro tra Inwit e le amministrazioni locali, soprattutto sui costi di occupazione del suolo pubblico. In base a un emendamento al decreto n. 77/2021, il canone annuo per antenna è stato fissato a 800 euro, contro i 5-20 mila euro chiesti dai Comuni. Secondo i sindaci, questo ha causato una perdita secca di 400 milioni di euro per le casse pubbliche e favorito il colosso delle torri, che avrebbe risparmiato fino a 180 milioni l’anno. Il risultato? Centinaia di ricorsi e un conflitto legale diffuso che rallenta l’implementazione della rete.
In Italia, la questione delle antenne 5G è da tempo al centro dell’attenzione mediatica. Non sono infatti pochi i comuni che ostacolano la loro creazione, invitando alla prudenza e chiedendo maggiori evidenze scientifiche che rassicurino circa gli effetti sulla salute dei cittadini. A mobilitarsi contro la costruzione di antenne sono anche privati cittadini, come nel caso delle comunità del piccolo borgo di Cassol, in Veneto, o di Siderno, in Calabria, o come nel caso Fleximan del marzo 2024, che, sempre in Veneto, ha preso di mira proprio un antenna 5G. Nel frattempo, nel giugno dello stesso anno, il Senato ha approvato con voto di fiducia un emendamento al cosiddetto “Decreto Coesione”, destinato a cambiare le sorti del Piano “Italia 5G”. Nello specifico, il provvedimento stabilisce che «la localizzazione degli impianti nelle aree bianche oggetto dell’intervento è disposta anche in deroga ai regolamenti comunali di cui all’articolo 8, comma 6, della legge 22 febbraio 2001, n. 36». Consentendo dunque allo Stato centrale di passare sopra l’amministrazione locale in merito alla installazione delle antenne, anche quando i Comuni si oppongono.
Nel frattempo, lo scorso settembre, la Regione Toscana ha avviato un’indagine approfondita in merito agli effetti dei campi elettromagnetici prodotti dalle nuove antenne 5G. Il progetto, commissionato all’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpat) e all’Agenzia regionale di Sanità (Ars) della Toscana, prevede uno studio che esaminerà se e in quale misura tali impianti possano rappresentare un rischio per la salute, con particolare riguardo all’incidenza di malattie come i tumori. Il monitoraggio, che include misurazioni sul campo e l’acquisizione di nuova strumentazione, finanzia con 220 mila euro un’analisi in parte teorica e in parte pratica.