Le comunità nigeriane di Bille e Ogale — circa 50mila abitanti complessivi — hanno avviato un’azione legale contro la multinazionale Shell e la sua ex controllata nigeriana, oggi ribattezzata Renaissance Africa Energy, per decenni di inquinamento ambientale causato dalle attività petrolifere, incluso il grave danneggiamento delle risorse idriche potabili. La vicenda giudiziaria, avviata nel 2015, approderà a processo nel marzo 2027 presso l’Alta Corte di Londra. Il tribunale ha già riconosciuto l’esistenza di 85 episodi di sversamento e ha stabilito che Shell può essere ritenuta responsabile anche per i danni derivanti da azioni di terzi, come i frequenti sabotaggi alle condutture. Le comunità locali chiedono bonifiche ambientali e risarcimenti economici, mentre la compagnia continua a negare ogni responsabilità diretta, affermando di aver sempre operato in conformità alle normative vigenti.
A Ogale, almeno 40 fuoriuscite dalle infrastrutture Shell dal 1989 hanno provocato una contaminazione delle falde acquifere mille volte superiore ai limiti di legge, secondo quanto rilevato dall’UNEP nel 2010. L’acqua, secondo le Nazioni Unite, «richiede un intervento di emergenza prima di qualsiasi altro intervento di bonifica» e l’esposizione agli idrocarburi «avrebbe certamente portato a conseguenze a lungo termine sulla salute». Le famiglie, dedite alla pesca e all’agricoltura, non possono più utilizzare i pozzi o coltivare i campi, resi sterili dall’inquinamento. A Bille, tra il 2011 e il 2013, enormi fuoriuscite hanno devastato 13.200 ettari di mangrovie, sterminando i pesci e privando i pescatori della loro principale fonte di cibo. La comunità, costituita da circa 45 isole, ha subito danni ambientali ed economici ingenti. Leigh Day, lo studio legale britannico che rappresenta i ricorrenti, ha intentato l’azione contro Shell per ottenere bonifiche e risarcimenti.
Lo scorso 20 giugno, la giudice May si è pronunciata su oltre 20 questioni preliminari. Ha riconosciuto che «finora sono state identificate circa 85 fuoriuscite», e ha affermato che, pur essendo il caso «ancora in una fase molto iniziale», Shell potrebbe essere ritenuta responsabile anche per le perdite causate da terzi – ad esempio i “bunkeraggi”, ovvero i sabotaggi agli oleodotti per il furto di petrolio. Ha inoltre affermato che, sebbene esista un termine di prescrizione di cinque anni per intentare azioni legali, «ogni giorno in cui il petrolio rimarrà» sui terreni interessati dalle fuoriuscite, nascerà una nuova causa legale.
La multinazionale ha risposto con fermezza, attribuendo la maggior parte delle perdite ad «atti criminali di terzi», come i ladri di petrolio o le raffinerie illegali, negando la propria responsabilità diretta. «Questa criminalità è la causa della maggior parte delle fuoriuscite nei bacini di Bille e Ogale», ha dichiarato un portavoce, aggiungendo che le contestazioni sono oggi gestite da una joint venture con l’ex filiale Shell, che «si avvale della sua competenza in materia di risposta alle fuoriuscite e di bonifica». Shell ha sottolineato che «i certificati di bonifica sono stati emessi dall’ente regolatore nigeriano NOSDRA». Ma per le comunità la posizione dell’azienda è inaccettabile.
È notizia di oggi che Bubaraye Dakolo, sovrano tradizionale del regno di Ekpetiama (Bayelsa, Nigeria), ha citato in giudizio Shell chiedendo 12 miliardi di dollari – circa 10,4 miliardi di euro – per bonifiche, smantellamento di infrastrutture e risarcimenti, dopo la vendita a Renaissance Africa di attività on-shore senza riparare i danni ambientali. Conosciuto anche come re Agada IV e attivista per i diritti umani e ambientali, Dakolo è sostenuto da ONG nigeriane che denunciano inquinamento di fiumi e terreni.
Il percorso giudiziario ha segnato una svolta nel 2021, quando la Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito che sussistono «fondati motivi» per ritenere la Royal Dutch Shell, con sede nel Regno Unito, responsabile per i danni ambientali causati dalla sua controllata. Si è trattato di una sentenza storica, che ha ribaltato le decisioni dell’Alta Corte e della Corte d’Appello, affermando che una società madre può essere chiamata a rispondere delle azioni delle sue filiali se esercita un sufficiente grado di controllo. Questo precedente, insieme a due importanti verdetti nei Paesi Bassi contro Shell, ha aperto la strada a una maggiore responsabilizzazione delle multinazionali per le loro attività nei Paesi del Sud globale.