Monte Mauao, Nuova Zelanda – Prima dell’alba, il sentiero che sale il monte – luogo sacro per i Māori, il popolo originario della Nuova Zelanda – si riempie di torce, lanterne e telefoni. Una processione contemporanea, a metà tra una veglia spirituale e un’escursione domenicale. Mauao non nasce in mezzo ad altre montagne, ma svetta solitario in una penisola pianeggiante. Come un bernoccolo. Un promontorio improvviso, quasi fuori posto, che nonostante i soli 232 metri cattura lo sguardo e l’immaginazione.
Una leggenda tribale, difatti, narra che Mauao, un tempo, era una giovane collinetta innamorata di una montagna già promessa ad altri. Disperata, chiese ai patupaiarehe – spiriti soprannaturali delle colline – di portarla fino al mare per lasciarsi morire. Mentre la trasportavano, l’alba li colse: e poiché questi spiriti temono la luce del sole, la abbandonarono. Così la collina fu pietrificata per sempre nel punto in cui si trova oggi. È questa la storia che spiegherebbe la sua presenza isolata da altri rilievi e la celebrazione che si svolgerà a breve sulla sua cima.
Alle cinque e mezza del mattino, sui suoi versanti, le prime genti già arrancano e borbottano: chi per l’emozione, chi per il freddo dell’inverno australe, chi solo perché non ha dormito abbastanza. Alcuni sembrano cercare qualcosa, altri scattano selfie nel buio. È l’alba del nuovo anno Māori, ma a tratti sembra solo un raduno da weekend, con più giacche tecniche e torce frontali che consapevolezza del sacro.
Dove finisce la terra e comincia il mito
Il cielo, però, non sbaglia. Come ogni anno, a cavallo tra giugno e luglio, fa capolino Matariki, il gruppo stellare conosciuto come Pleiadi, che nel calendario lunare māori segna l’inizio di un nuovo ciclo. Quest’anno cade il 20 giugno, ma essendo legato all’osservazione astronomica, Matariki non ha una data fissa: la sua celebrazione varia di anno in anno, a seconda del momento esatto in cui le stelle tornano visibili all’alba. È il cielo, non l’orologio, a decidere quando è tempo di ricominciare.
Secondo la mitologia, Matariki è composta da sette o nove stelle, a seconda delle tradizioni tramandate dalle diverse tribù. Ognuna di esse custodisce un significato profondo, legato alla terra, all’acqua, al nutrimento, al ricordo degli antenati. La leggenda racconta di sorelle celesti che solcano il cielo insieme: nella versione più diffusa, Matariki è la madre, seguita dalle sue otto figlie, ognuna con il compito di vegliare sul mondo naturale e su quello spirituale. Si tratta di un gruppo di stelle noto anche come Pleiadi, visibile in tutto il mondo, situato nella spalla della costellazione del Toro. Una costellazione che in Europa passa quasi inosservata, ma che qui accende cerimonie, preghiere e nuove promesse.
Dal 2022, dopo anni di lotte e pressioni culturali, il governo neozelandese l’ha finalmente riconosciuta come festività nazionale. Ma molti ancora non ne comprendono davvero il senso. O peggio: non gli importa affatto. Presto lo capisco anch’io: tra il buio e il fiato corto della salita, qualcuno mi urta cercando di superarmi in fretta. Non c’è rispetto né scuse, solo il ritmo di chi vuole arrivare in cima prima degli altri, come se ci fosse un premio. Capisco che non tutti sono qui per lo stesso motivo. Per alcuni è Matariki, per altri è solo un’altra escursione a sfondo culturale.
Due 4×4 messe a disposizione dal Comune raggiungono la vetta, trasportando gli anziani delle comunità. Nessuna ostentazione. Solo un modo semplice e dignitoso per permettere anche a chi non ha più gambe forti di essere presente. Io sono in piedi poco distante, li osservo sedersi su sedie di plastica sistemate alla bell’e meglio. Parlano in inglese e commentano con sarcasmo l’affluenza: «Una volta, prima del Covid, non c’era tutta questa gente… ora sembra un concerto», dice uno. Ridono, ma non troppo. È chiaro che non tutto è gradito.
In cima ci attende l’Ātea-ā-Rangi, la pietra sacra che funziona come una bussola stellare, progettata secondo la tradizione navigazionale māori, usata per orientarsi grazie alla posizione delle stelle.
La cerimonia comincia. Si chiama Matariki Maumaharatanga, il rituale del ricordo. Jack Thatcher – navigatore, educatore, ostinato difensore delle tradizioni – prende la parola. Lo fa quasi esclusivamente in te reo Māori, la lingua polinesiana tradizionale di qui, oggi riconosciuta come una delle lingue ufficiali della Nuova Zelanda. Dopo decenni di repressione coloniale – in cui parlarla era vietato – te reo Māori è oggi oggetto di una forte rinascita culturale e identitaria. Ancora pochissimi neozelandesi oggi la sanno parlare; ecco che, soprattutto durante eventi come questo parlare Māori si trasforma in un atto di resistenza culturale. Chi non la parla, non può intendere. Chi capisce, si commuove.
Jack racconta, in una delle poche frasi tradotte, che quella pietra sacra non doveva neppure esserci. Il comune aveva dato un secco “no”. Allora lui l’ha messa lo stesso, ma ai piedi del Monte sacro. Poi il comune, forse attratto dall’idea di attrarre nuovi turisti, ha ceduto. Oggi quella pietra è al centro del cerchio, in cima a Mauao. Nessun simbolo più adatto.
Dopo alcuni canti e preghiere, uno ad uno, si fa la fila per sussurra i nomi dei propri morti alla pietra di pounamu, una giada verde tipica della Nuova Zelanda. È un momento potente, eppure fragile. Intorno, qualcuno ride, qualcuno scrolla TikTok. Il sacro e il futile si sfiorano. Ma il cielo, testardo, continua a splendere.
Una festa, due mondi
All’alba, la festa scende a valle. Le strade si riempiono di eventi, bambini, camioncini di street food che vendono hāngī – il piatto tipico Māori cotto sotto terra fra le pietre roventi. Si celebra, si mangia, si chiacchiera. E si dimentica in fretta.
Un uomo di origine inglese, mi dice che non ha ben chiaro che cosa sia Matariki. «Non è la mia cultura», mi dice, sorseggiando caffè come fosse la cosa più naturale del mondo. Lo rispetto. Ma intanto mi domando cosa significhi colonizzare un Paese e ignorarne l’anima. Per molti Pākehā – i neozelandesi bianchi – Matariki è solo un altro giorno di vacanza. Un’occasione per uscire, bere qualcosa. Un tempo per non lavorare, non per ricordare. E così, la festa che dovrebbe unire, a volte rivela solo la distanza.
Un giovane Māori, invece, mi racconta del nonno che lo portava lontano dalle luci della città, sulle isole che affacciano la Baia del Plenty, dove il buio era ancora abbastanza profondo da svelare l’universo intero. Là, in silenzio, osservavano le stelle sorgere all’orizzonte, senza altro suono che quello del respiro. «All’epoca non c’erano turisti con fotocamere o telefoni a filmare tutto», dice con un sorriso tagliente, più rassegnato che nostalgico. Gli credo. Anch’io ho una reflex nello zaino, pronta a scattare ma scelgo di non sguainarla. È il motivo per il quale, a questo scritto, non seguirà alcuna fotografia. Certi riti vanno vissuti e rispettati, senza filtri, senza click.
Alla fine, resta la sensazione di aver sfiorato qualcosa che non ci appartiene del tutto. Un sapere antico che resiste, malgrado il folklore, l’ipocrisia istituzionale e le mode da cartolina. Le stelle, almeno loro, continuano a tornare. E noi, che ancora non sappiamo bene se ascoltarle o fotografarle, forse possiamo almeno imparare a fermarci. Matariki non chiede applausi. Chiede silenzio. Ma qui, anche quello ormai è diventato un lusso.