martedì 17 Giugno 2025

Meta AI, l’assistente virtuale che trasforma l’intimità in dati pubblici

A pochi mesi dal debutto nel Regno Unito e negli Stati Uniti, la nuova funzione di intelligenza artificiale firmata Meta – Meta AI – sta già sollevando interrogativi non marginali su privacy e consapevolezza digitale. Al centro della questione non c’è tanto la tecnologia in sé, quanto il modo in cui è stata integrata nell’ecosistema dei social network di Zuckerberg: con l’apparente semplicità di un assistente virtuale, Meta AI nasconde un’architettura progettata per massimizzare la visibilità e raccogliere dati, con le molteplici gaffe degli utenti che rivelano un grado molto basso di comprensione degli strumenti.

La funzione “Discover”, in particolare, permette la condivisione pubblica delle interazioni tra utente e chatbot. Una vetrina pensata per mostrare le potenzialità creative dell’IA, ma che nella pratica si è trasformata in una sorta di involontario confessionale globale. Conversazioni intime, richieste personali, dubbi medici, perfino sfoghi legati a lutti o traumi familiari: tutto questo è finito, spesso inconsapevolmente, nel feed pubblico. Meta non è evidentemente stata in grado di chiarire i meccanismi di pubblicazione, i quali non si sono decisamente dimostrati sufficienti a prevenire gli errori più banali.

Secondo quanto documentato da testate come la BBC e Business Insider, è emerso un pattern preoccupante: molti utenti affidano con leggerezza ai chatbot delle informazioni sensibili che, poi, finiscono per errore online, visibili a tutti. Sebbene ci sia innegabilmente un elemento di goffaggine da parte degli utenti, queste “fughe” di informazioni sono attribuibili anche a scelte manageriali strategiche

I chatbot odierni – non solo quello di Meta, ma anche quelli di OpenAI, Google e X – sono programmati per accogliere, consolare, legittimare. Simulano empatia, offrono comprensione, rafforzano un legame parasociale che, come fa notare lo stesso CEO di Meta, Mark Zuckerberg, mira a simulari discussioni che altrimenti si farebbero con amici e confidenti. La differenza è che qui non c’è una persona dall’altra parte, ma un sistema pensato per raccogliere, etichettare, ottimizzare.

In questo contesto, Meta ha agito con una certa coerenza industriale: quasi in contemporanea con il lancio del chatbot, la società ha annunciato un investimento da 15 miliardi di dollari per acquistare il 49% di Scale AI, azienda specializzata nella catalogazione dei dati. Un’operazione strategica che è stata inquadrata come un importante passo nei confronti della cosiddetta “superintelligenza” artificiale, ma che si dimostra anche uno sgambetto nei confronti della concorrenza: Scale AI era infatti uno dei principali fornitori di Google, rapporto che si è definitivamente incrinato dopo l’ingresso di Meta.

Meta non intende limitarsi a ospitare l’intelligenza artificiale. Vuole plasmarla, raccoglierne i frutti e definire i margini del consenso. Il che, in un ambiente dove la trasparenza è più dichiarata che applicata, lascia aperti più interrogativi che certezze. Il vero nodo, però, resta uno: la consapevolezza. Meta AI non è solo uno strumento tecnologico, ma un dispositivo sociale. Un luogo dove la fragilità dell’utente diventa materiale grezzo per l’addestramento algoritmico e dove l’intimità, per progettazione, smette di essere privata. In un sistema che promette comprensione e restituisce profilazione, la domanda che resta è se questa nuova empatia artificiale valga il prezzo della nostra esposizione.

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Walter Ferri

Giornalista milanese, per L’Indipendente si occupa della stesura di articoli di analisi nel campo della tecnologia, dei diritti informatici, della privacy e dei nuovi media, indagando le implicazioni sociali ed etiche delle nuove tecnologie. È coautore e curatore del libro Sopravvivere nell'era dell'Intelligenza Artificiale.

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