martedì 17 Giugno 2025

L’omicidio di Melissa Hortman e la violenza politica negli Stati Uniti

Sabato scorso, nella periferia a nord di Minneapolis, due case sono diventate teatri di sangue. La deputata democratica del Minnesota, Melissa Hortman, è stata uccisa insieme al marito da colpi d’arma da fuoco. Poche ore dopo, una seconda sparatoria ha ferito gravemente il senatore John Hofmann e sua moglie. Il presunto autore delle sparatorie, Vance Boelter, 57 anni, ex funzionario pubblico, direttore della sicurezza presso la Praetorian Guard Security – un’azienda fondata su metodi militari e disciplina paramilitare, è stato arrestato dopo un’intensa caccia all’uomo. L’uomo era in possesso di una lista di 70 nomi, possibili obiettivi: politici democratici, imprenditori, medici di cliniche pro-aborto.

La notizia, già drammatica di per sé, si inserisce in un contesto ben più ampio e inquietante che non è certo recente: quello di una nazione in cui la violenza armata e l’eliminazione di figure scomode sono stati a lungo strumenti di “normalizzazione” politica, altre volte si manifestano come lo sfogo di una aggressività connaturata alle radici e alla storia americane e mette in luce la profonda divisione sociale e politica che attraversa l’America e il clima d’odio che caratterizza il dibattito politico esasperato con l’istigazione verso gli oppositori politici (che ha avuto il suo apice nell’ultima campagna elettorale). 

Negli Stati Uniti, la violenza non è recente, non è un incidente e non è nemmeno all’insegna di un’unica parte politica. È parte integrante del loro DNA. L’America, “esportatrice di democrazia”, si racconta come terra di libertà, ma la sua storia è costellata da esecuzioni politiche, attentati, guerre civili e cospirazioni. E non solo da parte di squilibrati solitari: in molti casi, dietro le quinte si muove l’ombra di poteri più grandi e di veri e propri complotti. Basti pensare all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy nel 1963. La Commissione Warren ha liquidato il caso come opera solitaria di Lee Harvey Oswald, ma decenni di indagini indipendenti e desecretazioni progressive hanno mostrato un panorama torbido, popolato da CIA, mafia e falchi della guerra fredda. Non fu il solo. Suo fratello, Robert F. Kennedy, venne assassinato nel 1968. Anche qui, un colpevole ufficiale – Sirhan Sirhan – e una miriade di misteri e incongruenze. Il tutto in un clima da guerra civile strisciante, con le strade infuocate per la lotta dei diritti civili. Martin Luther King Jr. fu eliminato lo stesso anno. Malcolm X, tre anni prima. Tutti accomunati da un destino tragico e, forse, da una minaccia che infastidiva chi governa davvero nell’ombra.

Negli Stati Uniti, la figura presidenziale è spesso il catalizzatore delle fratture sociali. Quando Abraham Lincoln fu ucciso nel 1865 da un simpatizzante confederato, l’atto fu l’estensione diretta della guerra civile. James A. Garfield (fu ferito gravemente da Charles J. Guiteau, un avvocato deluso che aveva cercato invano un incarico governativo nel 1881) e William McKinley (assassinato dall’anarchico Leon Czolgosz durante l’Esposizione Panamericana nel 1901) furono vittime di attentatori solitari, sì, ma in un clima in cui la violenza era l’unico linguaggio rimasto a chi si sentiva escluso.

Nel 1981, Ronald Reagan fu colpito da John Hinckley Jr., ma il proiettile, che ferì anche il portavoce James Brady, portò a una timida riforma sul controllo delle armi. Persino presidenti come Jackson (1835), Roosevelt (1933), Truman (1950), Ford (due volte nel 1975), Clinton (1994) e Bush (2005) sono stati il bersaglio di attentati. Nonostante questo, gli Stati Uniti continuano ad avere un arsenale privato pari a quello di un esercito in tempo di guerra.

Più recentemente, Donald Trump è sopravvissuto a ben due tentativi di omicidio. Il primo, il più noto è avvenuto il 14 luglio 2024. L’attentatore, Thomas Matthew Crooks, è stato ucciso sul posto, lasciando dietro di sé una serie di domande senza risposta e il sospetto di una regia occulta. Il tentato omicidio del tycoon, infatti, è stato oggetto di svariate speculazioni e ha immediatamente sollevato i sospetti di un complotto orchestrato dal Deep State americano. Come ha fatto Thomas Matthew Crooks a sparare almeno sette colpi da un tetto situato a poco più di cento metri dal palco da dove parlava il politico americano, nonostante le segnalazioni del pubblico? Perché non è stato fermato, nonostante alcuni video lo riprendano chiaramente mentre prende la mira, prima di sparare? 

In molti parlano oggi di “gladio americana”, evocando una struttura simile a quella delle operazioni coperte in Europa durante la guerra fredda: operazioni false flag, destabilizzazione e manipolazione sociale. Il clima che si respira oggi negli USA, con la radicalizzazione crescente, la polarizzazione dell’opinione pubblica e l’odio tra fazioni politiche, sembra il terreno fertile perfetto per operazioni pilotate da apparati non eletti, ma non è nuova e fa parte del cuore dell’America stessa, una macchina imperiale alimentata dalla teoria dello shock e dalla destabilizzazione. A spiegare come la Casa Bianca usasse questo metodo su scala globale fu l’ex banchiere ed economista John Perkins che Confessioni di un sicario dell’economia descrisse una lunga scia di sangue, violenza e guerre all’interno del meccanismo di perpetuazione del processo di espansione dell’Impero globale a stelle e strisce, attraverso la figura del “sicario dell’economia”, un’élite di economisti che hanno il compito di trasformare la modernizzazione dei Paesi in via di sviluppo in un progressivo e continuo processo di indebitamento e asservimento agli interessi delle multinazionali, delle lobby e dei governi più potenti al mondo, USA su tutti. Quando, però, i sicari dell’economia falliscono il loro obiettivo, subentrano gli “sciacalli” della CIA, che hanno il compito di sopprimere fisicamente l’obiettivo considerato “scomodo” dai gruppi di potere. 

L’arresto di Boelter si colloca esattamente in questa tradizione, sebbene ogni caso sia diverso. Il suo passato da funzionario nominato dal governatore Tim Walz, la sua carriera militare e il suo ruolo in un’azienda di sicurezza paramilitare suggeriscono una figura perfettamente inserita nel sistema che a un certo punto, con lucida premeditazione, ha imbracciato un fucile. Anche nel suo caso, le domande superano le risposte: chi ha ispirato Boelter? È stato un lupo solitario o l’esecutore di una volontà collettiva, magari non esplicita, ma socialmente instillata attraverso la polarizzazione mediatica?
I fatti di Minneapolis rappresentano il capitolo di una lunga saga che attesta come la violenza politica non sia un’eccezione, ma la regola: è un sintomo di una malattia endemica, il simbolo di una costante che nessuna legge sul porto d’armi potrà mai curare. Perché la vera “arma letale” è la cultura della violenza che permea ogni livello dell’America profonda ed è connaturata con le sue origini.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.

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