Il Cairo, Egitto – La Global March fino al valico di Rafah non si farà. Sarebbero dovute partire a piedi da al-Arish il 15 giugno le migliaia di persone arrivate da tutto il mondo per rompere l’assedio a Gaza e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari bloccati da Israele. Ma la marcia, dopo giorni di tentativi, riflessioni e, soprattutto, di repressione da parte delle forze di polizia egiziane, non ripartirà. Tutto è cominciato la notte dell’11 giugno: centinaia di persone sono state fermate all’arrivo in aeroporto al Cairo, trattenute per ore in stanze isolate, private dei passaporti e dei telefoni. Dopo interrogatori e pressioni, decine sono state rimpatriate o inviate in Paesi terzi, come la Turchia. Altre migliaia sono riuscite a entrare in Egitto, ma la repressione non si è fermata. Il 12 giugno, almeno mille persone hanno tentato di raggiungere la città di Ismailia, in direzione del Sinai. Bloccate ai posti di controllo istituiti appositamente dai militari, sono state costrette a scendere da pulmini e taxi.
In due dei punti di blocco si sono formati sit-in spontanei, tra cori che gridavano «Free Palestine» e richieste di poter proseguire verso Rafah. L’obiettivo della marcia era rompere l’assedio che da mesi affama la popolazione di Gaza, ma il governo egiziano l’ha vissuto come una minaccia allo Stato, o più probabilmente ha accettato ancora una volta di fare il lavoro sporco per Israele. Dopo ore di stallo, verso le 19 il primo posto di blocco è stato sgomberato con la forza: gli attivisti sono stati obbligati a salire su autobus, spesso con violenza, e alcuni riferiscono di non aver nemmeno avuto il tempo di recuperare lo zaino o i documenti. Poco dopo anche il secondo presidio è stato sciolto, con l’intervento di persone in borghese che hanno colpito i manifestanti con calci e bottiglie piene d’acqua. Secondo alcune ipotesi, si potrebbe trattare di civili pagati o sostenuti dai militari, dal momento che loro non potevano permettersi di malmenare cittadini stranieri.
Decine sono state portate direttamente in aeroporto e rimpatriate, mentre centinaia sono state abbandonate per le strade del Cairo in piena notte. Dal giorno successivo, la March to Gaza ha cercato di riorganizzarsi, puntando a raggiungere le ambasciate per fare pressione sui rispettivi governi, denunciarne la complicità con il genocidio in corso e chiedere il via libera per proseguire. Ma le intimidazioni sono continuate: molti attivisti hanno trovato la polizia egiziana alle porte degli alberghi per identificazioni, controlli e pedinamenti.
Nella notte tra il 13 e il 14 giugno, alcuni referenti internazionali sono stati arrestati nelle loro camere e portati via. Manuel Tapial, della delegazione canadese, è stato fermato insieme ad altri connazionali e rimpatriato dopo ore di interrogatorio; il giorno seguente anche Hicham el Ghaoui, della delegazione svizzera, è stato espulso. «Sono venuti a cercarli negli alberghi durante la notte» racconta a L’Indipendente un’attivista svizzera che ha seguito il rimpatrio di una delle persone arrestate con Hicham. «Ci sono persone scomparse per molte ore. Ma piano piano arrivano notizie: sono state prelevate, interrogate e poi rilasciate o rimpatriate».
Anche Hicham, dopo ore in cui si temeva la convalida dell’arresto, è stato messo su un aereo diretto in Francia. Le autorità egiziane non avevano risposto alle richieste di autorizzazione da parte delle 54 delegazioni internazionali coinvolte nella marcia, eppure hanno fatto tutto il possibile per impedirne lo svolgimento. «Il popolo egiziano è con la Palestina» conferma sottovoce A., una giovane studentessa del Cairo, a L’Indipendente. «Ma qui ogni manifestazione è vietata. Anche gli assembramenti. Non possiamo alzare la voce per la Palestina, né per i nostri diritti» afferma.
Infatti, nella capitale egiziana non ci si può riunire in più di dieci persone in strada; nemmeno un sit-in pacifico è consentito, e qualsiasi dissenso è represso. Sebbene la maggior parte della popolazione sostenga Gaza, gli attivisti stranieri sono consapevoli di essere sotto stretta sorveglianza. Per questo, dopo gli arresti notturni, hanno deciso per il momento di rinunciare anche ai sit-in davanti alle ambasciate. In un contesto repressivo così difficile, gli attivisti si sono incontrati di nascosto, in piccoli o medi gruppi, in luoghi pubblici, per confrontarsi e tenere vivo il movimento globale. In molti discutono della possibilità di ritrovarsi a Bruxelles, o altrove, per continuare a fare pressione sui governi europei e costringerli a rompere il loro sostegno politico e materiale a Israele. «La Global March to Gaza non è finita» dice un attivista presente al Cairo a L’Indipendente. «Continuerà, in forme diverse, nei nostri Paesi, ma anche in nuovi momenti collettivi che cercheremo di costruire. Finché questo genocidio non finirà e la Palestina sarà libera».