lunedì 19 Maggio 2025

I Savoia continuano a reclamare un tesoro da 300 milioni dallo Stato italiano

Un cofanetto sigillato da 78 anni, nascosto nel caveau della Banca d’Italia, custodisce migliaia di diamanti e perle per un valore stimato tra i 20 e i 300 milioni di euro. Ma non tornerà, almeno per ora, nelle mani della famiglia Savoia: il Tribunale civile di Roma ha infatti respinto la richiesta di Emanuele Filiberto, figlio di Vittorio Emanuele (scomparso nel 2024), e delle zie Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice, che rivendicano la proprietà di questi beni. Secondo i giudici, il tesoro appartiene allo Stato italiano, in quanto «gioie di dotazione della Corona» e non beni personali. La battaglia legale, però, continuerà: la famiglia non demorde, annunciando addirittura ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il contenzioso giudiziario affonda le radici in una fase dirimente della storia italiana. Il tesoro venne depositato il 5 giugno 1946, tre giorni dopo il referendum istituzionale che sancì la nascita della Repubblica. A consegnarlo all’allora governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi, fu il ministro della Real Casa Falcone Lucifero, su incarico dell’ultimo re d’Italia, Umberto II. Il verbale ufficiale dell’epoca parlava chiaramente di «gioie di dotazione della Corona del Regno d’Italia», e questa definizione è risultata decisiva per il Tribunale: essendo legate alla funzione monarchica e non alla proprietà privata dei Savoia, le preziose gemme rientrano oggi nel patrimonio dello Stato. Nonostante la sconfitta, la famiglia Savoia non si arrende. Emanuele Filiberto ha annunciato sui social il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, affermando che la battaglia continuerà anche «per la restituzione, da parte dello Stato italiano, del valore di tutti gli immobili appartenuti alla famiglia Savoia».

Il contenuto del cofanetto è straordinario: 6.732 brillanti, 2.000 perle, diademi, spille e collier, tra cui spiccano la celebre tiara con nodo Savoia della regina Margherita e un raro diamante rosa montato su una spilla a fiocco. Le stime più prudenti parlano di 20 milioni di euro, ma secondo i criteri delle aste internazionali – dove il valore simbolico e storico influisce pesantemente – la cifra potrebbe salire fino a 300 milioni. Nonostante vengano spesso indicati da molti organi di informazione come “gioielli della famiglia reale”, i tesori non sono in realtà beni privati dei Savoia, poiché non furono acquistati con risorse personali della casata; essi furono invece simboli pubblici della monarchia e, in quanto tali, sono rimasti patrimonio della collettività dopo la nascita della Repubblica.

Il verdetto, pronunciato nella giornata di giovedì, va a chiudere una lunga vicenda giudiziaria iniziata nel 2021, quando gli eredi di Umberto II presentarono una prima richiesta di restituzione, immediatamente respinta. L’anno successivo presero avvio le azioni legali vere e proprie, contro Banca d’Italia, Presidenza del Consiglio e Ministero dell’Economia. Il Tribunale civile di Roma ha definito «manifestamente infondata» la questione di legittimità costituzionale sollevata nel corso del procedimento. A nulla sono valse le memorie private di Luigi Einaudi – e i pareri a lui attribuiti – secondo cui le gioie potessero spettare alla famiglia reale. Il giudice ha chiarito che si tratta di riflessioni personali, prive di valore giuridico. Nessuna prova, inoltre, dimostrerebbe che quei beni fossero effettivamente destinati ai figli del re.

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Stefano Baudino

Laureato in Mass Media e Politica, autore di dieci saggi su criminalità mafiosa e terrorismo. Interviene come esperto esterno in scuole e università con un modulo didattico sulla storia di Cosa nostra. Per L’Indipendente scrive di attualità, politica e mafia.

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