lunedì 2 Dicembre 2024

“Io, fotografo ebreo, perseguitato perché sto con i palestinesi”: intervista ad Adam Broomberg

Adam Broomberg è un artista, professore e attivista sudafricano residente a Berlino. La sua produzione fotografica, esposta in tutto il mondo, esplora spesso i temi del conflitto, del potere e della rappresentazione della verità nella società contemporanea, denunciando realtà complesse e scomode – come la violenza della quotidianità dell’occupazione israeliana in Palestina. Le sue posizioni, in particolare proprio quelle a sostegno della Palestina, lo portano tuttavia ad essere oggetto di dure persecuzioni. In Germania, in particolare, gli è stato revocato il permesso di svolgere attività culturali, la sua posizione di professore è stata cancellata ed ha persino alcuni processi penali in corso. Nessuna di queste forme di coercizione lo ha però mai convinto a smettere di utilizzare l’arte come strumento di denuncia dell’oppressione e della natura «ipocrita e malvagia» del nostro sistema.

Può dirmi come è nato il progetto Artist + Allies x Hebron?

Artist + Allies x Hebron è nato dall’incontro e dalla sintonia che si è creata con l’attivista palestinese Issa Amro. Il primo progetto che abbiamo realizzato con Artist + Allies x Hebron si chiama H2 – Counter Surveillance. Abbiamo pensato di sottolineare la sorveglianza continua del governo Israeliano sui palestinesi, mettendo delle telecamere in tutta l’area di Hebron, dove abita Issa. Le abbiamo nascoste tra le fronde degli alberi, negli uliveti (simbolo della resistenza palestinese), e abbiamo trasmesso in streaming le immagini delle colonie israeliane ad alcuni musei e siti web in tutto il mondo. Uno degli obiettivi di Artist + Allies x Hebron è quello di portare a Hebron persone della comunità internazionale, perché si può parlare, parlare, ma una volta sul posto bastano cinque minuti per capire cosa significa occupazione e apartheid. 

L’Italia non riconosce i Territori Palestinesi come Stato, perciò questi artisti non hanno mai avuto un proprio padiglione all’interno della Biennale, al contrario di Israele. Come è nata l’idea della mostra a Venezia e come siete riusciti a farla ammettere nel programma degli eventi collaterali? 

Pensiamo che la mostra di Venezia sia un ottimo esempio di come possiamo lavorare insieme come alleati, artisti palestinesi e comunità internazionale. La nostra presenza lì è stato il risultato di rapporti di lunga data, costruiti negli anni. Ad esempio, conoscevo la persona che ha creato l’associazione Artist Againts Apartheid e realizzato la Freedom boat [una performance in barca su Canal Grande all’apertura della Biennale, ndr]. Anche con Emily Jacir [artista, vincitrice del Leone d’Oro nel 2007, direttrice del centro culturale Dar Jacir a Betlemme, ndr] collaboriamo da tempo. Abbiamo messo insieme la proposta e l’abbiamo presentata come evento collaterale della Biennale, per fortuna quest’anno il curatore ha mostrato solidarietà con la causa palestinese. Abbiamo dovuto lavorare molto duramente, ma siamo riusciti a far ammettere l’esposizione nel programma. D’altronde, ha perfettamente senso che se ne parli in questo periodo. Credo che sia stato molto importante che la Palestina fosse rappresentata alla Biennale in questo momento, perché ovviamente Israele ha un padiglione intero, mentre i territori palestinesi no.

Quale aspetto della Cisgiordania ha voluto raccontare nella sua opera Anchor in the Landscape?

Si tratta di un’opera curata da me e da Rafael González, che è diventata anche un libro [pubblicato da Mack Books, ndr]. In essa abbiamo pensato di mostrare gli ulivi nei territori occupati, il più vecchio aveva 4500 anni. È impressionante pensare a quanti imperi quest’albero ha visto andare e venire. Se si tocca la corteccia, ci si sente insignificanti e ci si rende conto che il periodo che stiamo vivendo è solo un breve momento nel tempo. Abbiamo scelto di portare a Venezia gli ulivi perché sono il simbolo della resilienza palestinese: il rapporto tra la popolazione palestinese e la terra è così forte che le radici non si possono recidere. Questi alberi hanno importanza politica, economica e culturale per questo popolo, perciò diventano bersaglio facile per i coloni e le autorità israeliane, che li distruggono. Più di 1 milione di ulivi sono stati abbattuti dal 1947. Già nel 2005, vent’anni fa, abbiamo realizzato un progetto [Adam Broomberg e Oliver Chanarin, The Saints Forest, ndr] in cui esaminavamo le modalità e i luoghi in cui gli israeliani avevano piantato gli alberi. Abbiamo lavorato con un ricercatore che studiava l’impianto degli piante non autoctone all’interno del paesaggio, che contò fino a 200 milioni di pini in Israele. Le foreste di pini non nascevano in punti casuali, ma spesso erano state piantate sopra i resti dei 500 villaggi arabi distrutti nel ’47 e nel ’48. Quando abbiamo esposto questo progetto a New York, c’è stato un intero processo contro di noi, siamo stati denunciati per di aver accusato Israele di pulizia etnica. E questo accadeva 20 anni fa.

Qual è il filone tematico che regge l’esposizione South West Bank: Landworks, Collective Action, and Sound

La tematica che pervade tutta l’esposizione è ampia, mostra quanto le lotte si intersechino. La questione ambientale, quella dei popoli indigeni dei luoghi, le alternative al sistema di sfruttamento del territorio. Sia nel progetto degli ulivi che negli altri presentati dalle artiste e gli artisti di Dar Jacir, si percepisce l’attenzione alla terra. Non si tratta più solo della situazione in Palestina, ma dei diritti di tutti i popoli autoctoni in tutto il mondo, davanti alle potenze che hanno espropriato e sfruttato i loro territori a loro piacimento. 

Come ebreo che vive in Germania, lei è stato definito antisemita, preso di mira durante una manifestazione e non parteciperà alla manifestazione artistica Documenta di Kessel per le sue dichiarazioni a sostegno della Palestina. Com’è il panorama politico in Germania riguardo alla questione Mediorientale?

In Germania sto avendo parecchi problemi. Mi è stato effettivamente revocato il permesso di svolgere attività culturali, la mia posizione di professore all’Università è stata cancellata, e ho anche alcuni procedimenti penali a mio carico. Ma non si tratta di fare di me una vittima, il punto è capire che il lavoro che stiamo facendo funziona, ed è per questo che provano a fermarci e impedirci di fare progetti artistici di natura socialmente e politicamente rilevante. La Germania ha sicuramente un chiaro senso di colpa nei confronti degli ebrei dovuto all’Olocausto e ora c’è quasi un legame di sangue tra i tedeschi e Israele, per cui lo difenderanno a ogni costo. Ma se andiamo un po’ più a fondo, penso che il motivo sia più la solidarietà alle potenze coloniali, così come fanno Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Forse Israele, per gli Stati europei e occidentali, rappresenta l’ultimo vero movimento coloniale. 

È nato e cresciuto in Sudafrica durante l’apartheid da una famiglia ebrea lituana, scappata dall’Olocausto. Come è stato influenzato da questo contesto?

Quand’ero piccolo sono stato mandato in una scuola sionista nel Sudafrica dell’apartheid, quindi ho sentito la stessa propaganda sia fuori che dentro. Ci veniva detto quasi ogni giorno che la fine dell’Apartheid sarebbe stata la fine dei bianchi in Sudafrica, come mi raccontavano sempre che se lo Stato di Israele fosse fallito, sarebbe stata la fine del popolo ebraico. I miei fratelli erano più grandi, andavano già all’università e mi hanno fatto riflettere, al punto che sono diventato attivo politicamente all’età di 15 anni. Per prima cosa ho aperto gli occhi su cos’era l’Apartheid e poi, lentamente, questa prospettiva ha coinvolto anche la narrazione attorno allo Stato nazionale di Israele. Da ragazzo, quando avevo 14 anni, sono stato mandato in viaggio per tre settimane in Israele, andando a vedere tutti i siti storici della storia ebraica. Durante questo periodo ho notato la propaganda pazzesca che c’è sul loro diritto a essere lì, a prendere la terra.

Il Sudafrica è stato il principale alleato della Palestina, dopo il caso della Corte Internazionale di Giustizia. Come collega l’apartheid con ciò che i palestinesi hanno visto negli ultimi 70 anni?

Le situazioni sono ovviamente diverse. In Sudafrica la discriminazione si basava sulla schiavitù lavorativa, in Israele invece si tratta di un’occupazione, non si vuole solo creare una forza lavoro a basso costo, ma si punta a sfrattare le persone dai loro territori. Il confronto tra i due Paesi, però, è utile per capire cosa possiamo fare per fermare la violenza. Non ci si può aspettare infatti che ci sia un cambiamento dall’interno, come non c’è stato Sudafrica bianco. Solo il boicottaggio, le misure economiche e la pressione della comunità internazionale hanno fermato il governo sudafricano. Il governo dell’apartheid era assolutamente al verde, per questo ha cambiato le sue posizioni e sono iniziati i negoziati. Forse accadrà anche con lo Stato Israeliano.

Ogni industria, compresa l’arte, è oggi influenzata da finanziamenti militari. Cosa ne pensa e come possono gli artisti superare questo tema?

Non esiste un solo mondo dell’arte. Se guardiamo a un certo mercato dell’arte, spesso si tratta di situazioni al limite della legalità o finanziata con soldi di dubbia natura. Ma per fortuna ci sono altri e molti mondi dell’arte diversi che possono essere molto più critici e politici. Poi le cose stanno cambiando, come sta accadendo con i finanziamenti alle università da parte di aziende belliche, le persone si iniziano a opporsi e a farsi domande. E ci sono anche dei precedenti. Ad esempio ci fu il caso della crisi degli oppioidi, con i fondi della famiglia Sackler coinvolti in molte istituzioni museali di rilievo. All’epoca i vari musei hanno smesso di trarre denaro da quel mercato, perché l’hanno riconosciuto dannoso per le persone. È tutta una questione di consapevolezza.

Ha insegnato arte e fotografia in varie università della Germania, che prospettive secondo lei, le nuove generazioni?

Alcuni concetti erano chiari già con l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan da parte degli Usa, ma ora è tutto molto più esposto, è come se qualcuno avesse aperto una scatola e ora possiamo vedere distintamente l’ipocrisia e la natura malvagia del nostro sistema. Come per la questione climatica, prima se ne poteva parlare ma erano meno evidenti gli eventi climatici estremi ed anche l’impatto che avrebbe avuto sulle nostre vite. Le nuove generazioni si stanno accorgendo di tutto ciò molto velocemente, sono più consapevoli. Quello che non era mai successo durante il movimento di Black Lives Matter, ora sta accadendo, ossia che i giovani iniziano a vedere la connessione che c’è tra le varie lotte. È tutto legato all’oppressione che deriva dal capitalismo e dall’idea di progresso senza cura della terra o delle persone. Come educatore ho visto tanti studenti fare rivolte e manifestazioni in tutto il mondo, ma alcuni di loro sono spaventati, hanno paura, non è facile esporsi così, gli Stati hanno un potere immenso. I giovani hanno perso ogni senso di fiducia rispetto alle vecchie generazioni. Noi sappiamo che dobbiamo sacrificare qualcosa, ma loro sono coscienti che già stanno sacrificando qualcosa, il loro futuro.

[di Marianna Gatta]

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5 Commenti

  1. Le lotte che si intersecano, la connessione fra le varie lotte, per non parlare della resilienza; e del black lives matter, il “movimento” che perfino i teorici del panafricanismo sbertucciano (giustamente).
    Quando si cominciano a sentire questi termini inflazionati, queste frasi fatte, io drizzo il radar e giro i tacchi.

  2. Grazie per questo bellissimo articolo che fotografa non solo quello che l’occidente ha sempre fatto finta di non vedere sull’appartheid che Israle da sempre esercita sui palestinesi, ma anche sulla propaganda religiosa che le scuole sioniste, più spesso chiamate semplicemente ebraiche, esercitano sugli alunni. Ma ho anche trovato grande sintonia con il mio pensiero nella critica realistica del mondo occidentale . Quindi di nuovo grazie

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