domenica 28 Aprile 2024

Un esperimento ha mostrato che anche i topi possono diventare dipendenti dai selfie

Scattarsi selfie di continuo e da diverse angolazioni per sentire nel proprio corpo il rilascio di sostanze chimiche che provocano un senso di soddisfazione, non potendone più fare a meno: gli effetti dei social possono cambiare la vita anche ai topi. È il risultato dell’opera di Augustin Lignier, un fotografo professionista parigino spinto dalla missione di coinvolgere gli spettatori a contemplare e criticare non solo le immagini, ma anche la nostra società come produttrice e consumatore di esse. L’esperimento, nuovamente al centro dell’attenzione dopo essere stato recentemente ripreso dal New York Times, consisteva in addestrare due topi a scattarsi del selfie in cambio della distribuzione ricompense, le quali però dopo un numero prefissato di scatti diventavano più sporadiche o sostituite con una scarica elettrica applicata direttamente nella zona del piacere del cervello. Dopo un significativo numero di pressioni, i ratti hanno mostrato di azionare la leva sempre con maggiore interesse ignorando persino le ricompense che venivano erogate inizialmente, proprio come chi sta incollato alle slot machine in attesa di fare jackpot. Gli stessi comportamenti che, secondo il fotografo, vengono sfruttati dai social media per «mantenere l’attenzione dello spettatore più a lungo possibile».

Due fotografie scattate durante l’esperimento. Credits: Augustin Lignier/augustinlignier.com

L’esperimento è avvenuto all’interno di una scatola di Skinner, ovvero una gabbia in cui la cavia può esplorare liberamente l’ambiente e compiere azioni come premere un tasto o abbassare una leva. La struttura, impiegata già da anni nei test di studio comportamentale dei roditori, è stata convertita da Lignier in una e vera e propria cabina fotografica: l’artista ha costruito una torre alta e trasparente con due topi all’interno. Ogni volta che i ratti premevano l’unico pulsante presente nella scatola, veniva distribuita una piccola dose di zucchero e la macchina realizzava lo scatto mostrando poi la foto alle cavie. Al termine della fase di formazione, il processo di rilascio dei dolci è stato modificato trasformandosi in uno schema ad intermittenza. Ne è risultato che gli animali “sono rimasti incollati al pulsante aspettando il prossimo jackpot”, ignorando talvolta persino lo zucchero rilasciato con meno frequenza rispetto alla fase iniziale.

La scatola di Skinner realizzata dal fotografo per condurre l’esperimento. Credits: Augustin Lignier/augustinlignier.com

Per Lignier il parallelo è ovvio: «Ogni volta che premono il pulsante provano piacere nel cervello. Poi iniziano ad associare un’azione al piacere e iniziano a giocarci sempre di più. Ecco perché continuano ad andare avanti. Le società digitali e di social media utilizzano lo stesso concetto per mantenere l’attenzione dello spettatore il più a lungo possibile». Parole che trovano accordo anche con alcuni studi sottoposti a revisione paritaria e accettati dalla comunità scientifica da anni. In uno studio del 2014, per esempio, gli scienziati hanno mostrato che molti volontari umani «preferivano somministrarsi scosse elettriche invece di essere lasciati soli con i loro pensieri», mentre un’altra ricerca del 2021 ha descritto i social media come «una scatola di Skinner per l’essere umano moderno». Lignier ha poi aggiunto che l’esperimento traccia una connessione tra il modo in cui i ratti utilizzano la scatola fotografica ed il modo in cui gli esseri umani sono incentivati da ricompense misurabili, come i “Mi piace” e le altre interazioni sui post. Si tratta, secondo numerosi esperti, dell’effetto della dopamina: un neurotrasmettitore endogeno prodotto nel cervello quando facciamo qualcosa di piacevole e adibito quindi a motivarci a ripetere tali azioni, motivo per cui però è anche collegato alla dipendenza. Motivazioni confermate anche dalla dottoressa Anna Lembke, che ha affermato che «i social ci stanno rendendo dipendenti dalla dopamina ed ogni tocco, mi piace o post alimenta la nostra abitudine rendendo sempre più difficile l’astinenza».

[di Roberto Demaio]

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