lunedì 29 Aprile 2024

Vestiar Collective: l’e-commerce che ha dichiarato guerra alla moda usa e getta

Una montagna di vestiti che riempie Times Square come una nevicata invernale. Ma anche il Colosseo, l’Empire State Building, la Tour Eiffel e Buckingham Palace. 92 milioni di tonnellate di vestiti, quelli che vengono buttati ogni anno e quelli che potrebbero, in teoria, riempire tutti questi monumenti storici. Molto meglio pensare prima e comprare second hand. “Think first, buy second hand”, è l’invito di questa campagna di Vestiaire Collective, piattaforma globale per la rivendita di capi di seconda mano di moda di lusso, con la quale ha annunciato la sua decisione di bandire dal suo sito circa 30 marchi di fast fashion, come parte della sua missione per la lotta allo spreco nel settore tessile.

H&M, Zara, Uniqlo, Gap, Mango e Urban Outfiters sono solo alcuni dei marchi che non saranno più disponibili sulla piattaforma, che punta ad abbandonare completamente i produttori di moda veloce entro il 2024. Una mossa che vuole dimostrare l’impegno dell’azienda nel creare un’economia più circolare, riducendo impatto ambientale e sociale della moda. Per fare ciò, oltre a puntare sul dare una seconda vita ai capi, promuovendo l’acquisto di abiti usati (di lusso), si prodiga in consigli e fornisce risorse per stimolare ed educare gli utenti a non gettare, bensì a riutilizzare e mantenere in circolo i capi che già sono nel loro armadio. 

Tecnicamente, essendo una piattaforma dove sono gli utenti a comprare ma anche a mettere in vendita i propri abiti, ogni volta che i clienti proveranno a comprare/vendere articoli dei marchi “vietati”, verranno avvisati con un apposito messaggio che li informerà del divieto ma soprattutto del perché. Per elaborare in maniera sensata queste motivazioni, informando in maniera dettagliata, l’azienda si è avvalsa di nove esperti di moda sostenibile, che insieme hanno cercato di raccontare i retroscena del mondo del fast fashion sia dal punto di vista della produzione tessile (lavorazioni), ma anche da quello etico e sociale (lavoratori e sfruttamento). Oltre a questo, una guida su come avere un approccio più consapevole agli acquisti e quali sono le alternative ai marchi bannati, chiude il cerchio di questa manovra. 

La decisione é stata presa per “portare alternative al modello di moda dominante” e promuovere altre opzioni, come il second hand o un certo vintage di qualità. Ed effettivamente, dopo il divieto, la piattaforma ha registrato un incremento delle vendite di capi di qualità migliore. Obiettivamente, però, questo taglia fuori una parte di clienti che, comunque, non hanno la capacità acquisitiva richiesta di questo usato-di-lusso. L’intenzione sicuramente é buona e manda un messaggio forte e di rottura con questo sistema produttivo altamente impattante. Dall’altro lato impossibile chiudere gli occhi su tutta un’altra serie di marchi, di lusso, ma anche di sportswear e pret-a-porter, che nelle loro scelte e nelle loro pratiche non sono precisamente i pionieri della sostenibilità (produzioni delocalizzate in siti dove il lavoro è sottopagato, materiali derivati dal petrolio, sprechi all’ordine del giorno…).

Rimane quindi aperto il dibattito, dove per alcuni si tratta di una mossa di posizionamento strategica per elevarsi nel mercato di seconda mano di fascia alta, mentre per altri si tratta di un segnale coraggioso. La domanda, in ogni caso, nasce spontanea: ma tutti questi capi che ci piovono addosso, non era meglio tenerli in circolo invece che buttarli in discarica?

[di Marina Savarese]

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