venerdì 3 Maggio 2024

Energia senza limiti? Dal mito ai macrosistemi, cioè alla fine del pensiero

È difficile, anzi è impossibile, che il mito si affidi al caso. Se dunque partiamo dal dio greco Efesto, Vulcano per i romani, è per mostrare come l’energia si nasconda nel profondo, diremmo nell’inconscio della Terra, e che abbia a che fare, come in Efesto, con il fuoco, con le armi, con le meraviglie della tecnica, con un saper fare che sa sopravanzare i limiti fisici stessi, quelli di Efesto, ad esempio, che è zoppo, sbilenco, perfino mostruoso. All’incudine egli forgia le armi di dèi ed eroi, col fuoco modella gioielli per dèe e belle signore, è lui che incatena Prometeo, è lui che anima l’immobile e immobilizza il vivente.

Efesto-Vulcano parla di un’energia ambigua, che risiede nelle mani di entità inquietanti, che sa produrre bellezza ed orrore, eros e guerra. Un vulcano appunto che mostra con le spirali di fumo la sua presenza, che vive nell’ombra incessantemente ma che talora esplode, si scoperchia e invade spargendo morte e terrore. Una realtà utile ma minacciosa che sfugge alla disciplina, alla razionalità, difficile da manipolare e da orientare. Si mostra in tal modo l’ambiguità originaria di una certa energia, il suo lavorare all’oscuro, che contrasta con l’altra energia, presente nella superficie o nel cielo, quella del vento, dell’acqua, del sole. Per di più, con Efesto-Vulcano si configura lo schema cognitivo e di funzionamento che nei secoli della modernità avrebbe generato l’accumulo (ad es. delle sostanze fossili), poi l’estrazione (connessa alla potenza, alla sostanza), poi ancora la conservazione e lo stoccaggio e infine il trasferimento dell’energia.

Energia è dunque sinonimo di trasformazione e di movimento, ma prima di tutto, ancora in un senso mitologico e arcaico essa va scoperta, riconosciuta, trattata con cura come un animale potenzialmente aggressivo, di cui non conosciamo bene le reazioni, dalle conseguenze imprevedibili. In tutto il nostro pianeta, dall’America all’Europa, all’India, alle isole del Pacifico è presente la leggenda del serpente arrotolato su se stesso.

Eccone un esempio lontano. “Lo spirito mandò il cacciatore in cerca di una pentola, ma non una pentola qualsiasi. Si trattava di una pentola particolare e gliela descrisse minutamente, spiegando che l’avrebbe trovata fra le radici di un certo albero. Però, nel posto indicato l’uomo trovò solamente un serpente, un crotalo nero. Rifece il cammino e riferì allo spirito di non aver trovato altro che un serpente. ‘Non hai notato – lo rimproverò lo spirito – che il serpente se ne stava arrotolato su sé stesso e somigliava a un tegame? Perché non me lo hai portato, come ti avevo detto?’… Lo spirito del bosco, allora, impartì al cacciatore un altro ordine: questa volta doveva andare a raccogliere legna per il fuoco. Obbedì ma l’incontentabile spirito disse che neppure questa volta l’uomo l’aveva azzeccata. Lo condusse ai piedi di un grande albero morto, lo scrollò appena e l’albero precipitò al suolo. Allora se lo caricò sulle spalle e quando furono alla capanna lo spirito disse: ‘Questa per me è legna da ardere. Tu non mi avevi portato altri che nidi di uccelli’”.

In questa leggenda della Guyana amazzonica è presente sia la concezione che l’energia in natura è conservata accumulata, e dunque va liberata con una tecnica, sia la visione della sua misura e della sua potenzialità. L’uomo raccoglie quanto gli servirebbe per il momento, lo spirito della foresta lo spinge invece ad esagerare, ad andare oltre, in qualche modo gli suggerisce di procurarsene di più, magari per tempi futuri. Alain Gras, in un suo interessante studio sui macrosistemi tecnologici (trad.it. Nella rete tecnologica, Utet Libreria, Torino 1997) afferma giustamente che “la ricerca della realizzazione istantanea dei desideri è antica quanto l’umanità e il pensiero magico ne è una prima forma espressiva, quella della tecnoscienza che si proclama razionale ne è un’altra” (p. 45). L’immagine del serpente arrotolato sotto la Terra, la celtica Wouivre, spiega una parte delle credenze ampiamente diffuse ancora nel medioevo, secondo le quali in certi luoghi, destinati poi alla costruzione delle cattedrali, l’energia tellurica fluiva con effetti benefici e garantiva prosperità, purché fosse ben separata e distinta dall’energia diabolica dei fiumi sotterranei che l’arcangelo Michele si incaricava di tenere a bada. Da cui il legame tra il culto di san Michele e la presenza dell’acqua sorgiva.

La svolta storica avverrà nei secoli successivi con la delocalizzazione della potenza ricavabile, per cui l’energia è vista come trasformazione e movimento, è l’esito di scoperte e conquiste territoriali, comporta lo sfruttamento e lo spostamento delle sostanze minerarie e fossili estratte, con la connessa riduzione in schiavitù delle maestranze coinvolte, una energia fornita mediante la disponibilità estesa attraverso reti materiali e di trasporto sempre più complesse.

La concentrazione industriale che ne deriva pone in essere nuovi contesti sociologici e giustamente Gras osserva che se un tempo era l’essere vivente, uomo o animale, a garantire la fornitura di energia, di lavoro (termine che verrà recuperato dalla fisica), e quindi erano necessarie grandi concentrazioni di masse umane per eseguire trasformazioni e applicazioni dell’energia, oggi “l’immagine dell’energia come conquista progressiva del destino da parte dell’uomo, – in quell’umanità astratta che nessuno ha mai incontrato – dev’essere soppressa” (p. 33). Analogamente la metafora della macchina va perduta in favore di una visione simbolica dell’ambiente e del “mondo come scambio incessante di trasformazioni” (p. 21).

Proprio da questa visione deriva però il rischio di un assoluto dominio tecnocratico perché sono proprio gli invasivi macrosistemi tecnologici a garantire la circolazione dell’informazione, a mettere in rete i dati e i dispositivi di controllo e condizionamento.

Il richiamo presentato nel 1950 da Norbert Wiener, il fondatore della cibernetica, sembra ormai saggezza del passato: “Qualsiasi macchina costruita per indicare delle decisioni, se non possiede la facoltà di imparare, agirà sempre in conformità di uno schema meccanico. Guai a noi se la lasceremo decidere della nostra condotta senza aver prima studiato le leggi che governano il suo comportamento, e senza sapere con certezza che questo comportamento sarà basato su principi che noi possiamo accettare!… Per colui che non avrà coscienza di ciò, addossare il problema della propria responsabilità alla macchina (sia che questa possa apprendere oppure no) vorrà dire affidare la propria responsabilità al vento e vedersela tornare indietro tra i turbini della tempesta” (trad.it. Introduzione alla cibernetica, Boringhieri 1953, p. 228). Ormai, osserva ancora Gras, “una sorta di spirale evolutiva accresce progressivamente la legittimità dei macrosistemi, allontanandola sempre più da ogni giudizio su scala umana, in nome di una logica tecnica autonoma”.

Quella che legittima il nucleare, le linee ferroviarie superveloci, l’incremento esponenziale dell’uso dei satelliti, la visione complessiva di una realtà che non accetta più nessuna interpretazione alternativa, nessuna varietà di atteggiamenti ma soltanto una condotta fideistica, passiva o assegnata, ai diktat di una scienza sempre più tecnocratica, tecnocratica anche là dove non lo è mai stata, ad esempio nel campo medico, in cui la componente umana, con le sue variabilità determinanti, viene accantonata, risultando di intralcio al compimento del programma prestabilito.

Vietato insomma fare domande, questa la minaccia che Wiener intravedeva, non soltanto però perché ogni essere umano è un ingranaggio ma perché la tecnica moderna produce una ideologia dell’incontrollabile che legittima la perdita del potere decisionale da parte dell’individuo. E Gras aggiunge ancora che è il discorso progressista a lasciare spazio alla sovranità tecnologica, e ciò è vero se osserviamo come recentemente siano stati accusati di ignoranza, e ricacciati nella preistoria, tutti coloro che si sono opposti al dominio delle decisioni del macrosistema.

Prendiamo, per finire il caso delle restrizioni del consumo energetico suggerite ovviamente dall’aumento delle bollette, non dalla necessità di orientare i consumi al risparmio per il rispetto delle future generazioni. Sicché la guerra in Ucraina funziona come una drammatica, speriamo non irreparabile, lezione scolastica che impone una visione del mondo restrittiva e allarmistica, senza creare una nuova coscienza dei consumi. Rinunciare è un atto morale, politico, oltre che una scelta che comporta cambiamenti personali. Quando Francesco d’Assisi rinuncia ai beni paterni nell’Assisi di inizio Duecento e rimane svestito davanti a tutti, in quel modo egli non espone il suo corpo bensì la sua anima che vuole si presenti nuda davanti a Dio. Rinunciare non è applicare qualche transitoria regoletta di convenienza, ma è proclamare che qualsiasi sistema di potere agisce sempre di più e meglio sul superfluo piuttosto che sull’essenziale, che fa finta invece di salvaguardare, senza sapere assolutamente in che cosa consista. L’essenza è in effetti il vero problema, il cuore che si nasconde in ogni vivente. Ogni mente, dal canto suo, ha una rappresentazione di ciò che è irrinunciabile, che costituisce l’ultima frontiera, la spiaggia senza ritorno. Questo lato umano non va minacciato, non va calpestato o ingannato. Se diciamo che le energie sono illimitate diciamo una falsità che però nasconde la verità che nessuno può fare l’inventario mondiale, planetario dell’energia disponibile.

Dobbiamo consumare di meno? Ma allora cominciamo ad agire sui comportamenti alimentari, sugli sprechi continui, sulle scorte dei supermercati che vanno il giorno dopo all’ammasso. Dobbiamo spendere di meno? Ma allora spieghiamolo agli investitori che lavorano per le multinazionali, i quali ci fanno accantonare il denaro, se lo abbiamo, sapendo che è destinato lentamente ad estinguersi. Dobbiamo possedere di meno? Ma siamo perfettamente sicuri che quello a cui vorremmo rinunciare non finirà a mitigare le miserie in giro per il mondo.

Il macrosistema tecnocratico ci impone di consumare meno energia. Ma perché è sempre stata disponibile un’energia superiore alle necessità reali? Vi ricordate quando bastava fare una telefonata per aumentare la disponibiità del vostro contatore elettrico, poniamo, da 3 a 4.5 kwatt. Il racconto ora è cambiato, gli scrittori del destino immaginano un mondo più giusto in base al fatto che comanderanno loro sempre di più. A noi spetta un compito umano, non macchinico, non tecnocratico, a noi semplicemente spetta di pensare.

Qualche decennio fa si era teorizzato il pensiero debole, penso, quasi per andare incontro da buoni democratici ai condizionamenti crescenti, al crollo delle certezze e alle complessità che sarebbero derivate. Un pensiero debole è pronto a farsi andar bene quasi tutto, paciosamente abbandonato in una disponibilità puramente intellettuale.

Ora il pensiero umano deve riprendersi il suo potere, non fare sconti, confrontarsi sulle interpretazioni, aprire dialoghi come facevano gli antichi greci, fissare una agenda irrinunciabile di atti da compiere, di risultati da ottenere. Riprendersi in mano l’autonomia di giudizio, non fare come i quotidiani usciti oggi che parlano di tempesta perfetta a proposito della imminente influenza. L’autunno è appena cominciato, Ray Bradbury, il grande visionario autore di Fahrenheit 451, commentando il suo Addio all’estate, scrive che questo suo romanzo “parla di ragazzi e di vecchi, le nostre speciali Macchine del Tempo… La zia Neva è stata la custode e giardiniera delle metafore che sono diventate la parte più importante di me. Si è occupata di nutrirmi con le fiabe più belle, con la poesia, il cinema e il teatro, in modo che la febbre della vita continuasse a bruciare insieme alla voglia di scrivere”.

Dunque, ricominciamo a pensare, riduciamo, va bene, i nostri consumi energetici, impariamo la rinuncia, ma ricominciamo a scrivere il nostro destino.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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