lunedì 29 Aprile 2024

L’app X ha permesso la condanna a morte di un dissidente saudita

L’organizzazione non governativa Human Rights Watch (HRW) ha recentemente reso noto che il 10 luglio 2023 Muhammad al-Ghamdi è stato condannato a morte dal Tribunale penale specializzato dell’Arabia Saudita. Al-Ghamdi, un insegnante in pensione di 54 anni, è stato riconosciuto colpevole di aver diffamato la famiglia reale e di aver sostenuto ideologie terroristiche. Le prove contro di lui si basano su post pubblicati su Twitter, ora noto come X, elementi di testo in cui criticava l’establishment saudita e condivideva il pensiero di molteplici dissidenti arabi.

I documenti del tribunale consultati da HRW citano due specifici account internettiani, i quali si sono accattivati complessivamente appena dieci follower attraverso un portafoglio di post che non tocca neppure i 1.000 contenuti di testo, molti dei quali erano repost. Entrambi i profili erano anonimi. Il documento fa anche riferimento a dei video su YouTube, ma HRW non fornisce in tal senso ulteriori dettagli.

Il contenuto dei tweet di al-Ghamdi riflettevano le opinioni tradizionalmente espresse dagli attivisti per i diritti umani. L’uomo si concentrava soprattutto sulla richiesta di rilascio di figure religiose detenute dalla famiglia reale, un tema che gli era probabilmente molto caro a causa di alcuni suoi legami familiari. Suo fratello, Saeed bin Nasser al-Ghamdi, è infatti un noto studioso islamico che, a causa delle sue opinioni dissidenti, ha scelto di vivere in esilio nel Regno Unito.

L’arresto è avvenuto più di un anno fa, l’11 giugno 2022, presso la sua abitazione a La Mecca, quindi al-Ghamdi è stato confinato in una cella di isolamento per diversi mesi. Nonostante le lunghe sessioni di interrogatorio, l’uomo sarebbe riuscito a consultarsi con un avvocato solo poco prima delle udienze del tribunale, il che ha gravemente compromesso le sue possibilità di difendersi efficacemente dalle accuse.

Gli attivisti ritengono che la condanna di al-Ghamdi rappresenti la sentenza più severa nell’ambito della recente ondata di repressione da parte delle autorità saudite. Normalmente, espressioni critiche online sono punite con pene detentive che vanno da 20 a 45 anni. L’imporre la pena di morte trasmette dunque un messaggio estrememente forte, soprattutto considerando che le prove si basano esclusivamente su una manciata di contenuti digitali. Saeed, intervistato dalla National Public Radio statunitense, sostiene che la condanna di suo fratello minore sia una punizione per la sua resistenza al rimpatrio.

Al di là della situazione dell’Arabia Saudita, la tragica posizione di al-Ghamdi solleva l’attenzione del pubblico su una problematica di natura tecnica, ovvero sul come siano riusciti gli investigatori a risalire all’identità del sospetto, la quale era ipoteticamente protetta da anonimato. X e la sua CEO, Linda Yaccarino, non hanno commentato apertamente il caso e si sono piuttosto limitate a pubblicare un comunicato stampa generico in cui l’azienda si dichiara a favore della libertà di parola. Uno sforzo insufficiente e che non spazza ogni eventuale dubbio, soprattutto se si considera che proprio l’Arabia Saudita è per dimensioni il secondo investitore della piattaforma.

[di Walter Ferri]

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