mercoledì 4 Dicembre 2024

C’è un passaporto digitale che servirebbe, infatti l’industria non lo desidera

In questo momento storico costellato di “eco”, dove anche le grosse multinazionali del petrolio sbandierano lo stendardo della sostenibilità e tingono i loghi di cinquanta sfumature di verde, destreggiarsi tra verità e trovate di marketing è sempre più difficile. Se ci affacciamo nel mondo della moda poi, la confusione e l’opacità sono di casa. Questo perché si tratta di un’industria priva di regole, dove non c’è nessun obbligo legale di elencare tutti gli ingredienti, il tipo di lavorazione, la provenienza o qual è il modo migliore per smaltirli. Una terra di nessuno, riempita di etichette sommarie che raccontano solo una parte della storia (sappiamo bene che il “Made In…” è una dicitura aleatoria, perché un capo può essere stato tagliato da una parte, assemblato da un’altra e tinto in un’altra ancora). Etichette che potevano andare bene fino a 40 anni fa, quando il sistema era localizzato e gestibile (molte aziende possedevano le loro manifatture o si rivolgevano a produttori di zona), quando la provenienza era sinonimo di garanzia di qualità e c’era quasi una geografia ben definita dell’industria tessile (le lane migliori erano quelle italiane, la seta più pregiata arrivava dall’India e dalla Cina, mentre per il lino ci si rivolgeva direttamente alla Francia). 

Poi qualcuno si è accorto che era più conveniente rivolgere lo sguardo alle competenze delle nascenti industrie dall’altra parte del mondo: meno controlli, forza lavoro sfruttata, attenzione all’ambiente pari a zero. Costi inferiori, più margini, più profitti. Ed ecco una fitta nebbia calare su intricate filiere produttive, delle quali non si vede né l’inizio né la fine; dove i diritti umani sono ignorati e le pratiche ambientali scorrette sono tollerate e nascoste. Nella moda le uniche luci sono quelle che si accendono per dieci minuti sulle passerelle delle fashion week: tutto il resto sono ombre, segreti, bugie. Ecco perché c’è bisogno di trasparenza.

«La trasparenza è il primo passo verso un più ampio cambiamento sistemico in favore di un’industria mondiale del fashion più sicura, più equa e più pulita» (Sarah Ditty, Fashion Revolution Policy Director)

Chiedere a un marchio di essere trasparente e di rendere pubbliche e accessibili tutte le informazioni riguardanti la filiera e il prodotto non è una cosa semplice, anzi. Sembra un’impresa ardua perché, stando all’ultimo Fashion Transparency Index (2022), sono ancora poche le aziende che hanno rilasciato informazioni esaustive al riguardo. Eppure, costringere i marchi a rendere conto delle loro azioni, è utile per avere dati confrontabili, per facilitare il lavoro di associazioni e organizzazioni per i diritti umani, per capire come smaltire al meglio i prodotti in un’ottica circolare e permettere alle persone di fare scelte consapevoli. Se non c’è trasparenza, difficilmente si troveranno soluzioni.

Ecco perché, nell’ambito della Strategia Europea per il Tessile Sostenibile, la Commissione ha proposto l’introduzione di un Passaporto Digitale per i Prodotti (DPP). Un supporto in grado di raccontare tutta la storia del prodotto, dalla materia prima al negozio, fino alle informazioni su come gestirlo a fine vita. Dati che saranno poi condivisi in maniera elettronica con tutti, dai fornitori alle autorità per giungere ai clienti finali. Sarà sufficiente un QR scansionabile sul prodotto per aprire una finestra virtuale su tutti i dettagli produttivi fondamentali, mettendo nero su bianco ogni singolo passaggio. Una trovata che mette alle strette, costringendo le aziende a dire la verità e assumersi le proprie responsabilità durante tutto il ciclo di vita del prodotto (possibilmente ponendo fine all’obsolescenza programmata e obbligando i marchi a progettare in un’ottica circolare). Proprio per questo sono già state sollevate le prime obiezioni e perplessità, relative soprattutto alla privacy/protezione dei dati e alla necessità di mantenere il segreto industriale (e si sa, che una delle maggiori paure nel mondo della moda è di essere copiati). 

Per tranquillizzare gli animi e per capire quali saranno le informazioni obbligatorie, la Commissione europea se ne occuperà caso per caso con l’aiuto di tecnici esperti in materia, facendo in modo di tutelare anche i diritti riguardanti la proprietà intellettuale del produttore. Il che sta facendo slittare ulteriormente la messa a regola di questo sistema che sarebbe dovuto entrare in vigore proprio quest’anno. 

Perché è così difficile “tracciare” il percorso dei nostri vestiti?

La filiera della moda non è per niente lineare: è fatta di tanti passaggi, coinvolge tante industrie differenti, dall’agricoltura alla comunicazione, sviluppandosi su più livelli, che spesso sono altrettanto frammentati e confusionari. Per avere il quadro completo bisognerebbe capire da dove arrivano i materiali grezzi (dove si allevano le pecore per la lana, dove si coltiva il cotone, ecc.); come e dove vengono trattati per passare da filato a tessuti (tintura e trattamenti compresi); per poi giungere al taglio, confezione e packaging.

Risalire a tutte queste informazioni, quando spesso il marchio non conosce nemmeno chi cuce i suoi vestiti per via d’intermediari, appalti e sub-appalti non comunicati, è veramente un’impresa. Impegnati nel costruire e comunicare “il brand”, dagli anni 90 le aziende hanno smesso di fare vestiti: si limitano a venderli. Eppure una presa di coscienza e responsabilità è necessaria; essere trasparenti, oggi, è l’unico modo per instaurare una relazione sana basata sulla fiducia con le persone che, di fatto, sono sempre più attente e sensibili a tematiche etiche/ambientali.

Se il buon senso non basta, forse basterà l’obbligo di mostrare un passaporto…

[Marina Savarese]

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2 Commenti

  1. Quello che non capisco è perchè le informazioni mancanti (“… da dove arrivano i materiali grezzi (dove si allevano le pecore per la lana, dove si coltiva il cotone, ecc.); come e dove vengono trattati per passare da filato a tessuti (tintura e trattamenti compresi); per poi giungere al taglio, confezione e packaging) che fino ad oggi non sono state disponibili, dovrebbero magicamente diventare conosciute solo perchè inseribii in un QR.

    • Non è questione di magia, si tratta di responsabilizzare le aziende che così non possono più chiudere un occhio su tutto il sistema di appalti e subappalti. E infatti è un’idea questa osteggiata. Immagina se la Zara di turno deve vigilare sul suo concessionario in India che poi a sua volta commissiona a qualche piccolo schiavista il reperimento della manodopera. Ora Zara può dire che non c’entra, con una legge del genere se non vigila su tutta la filiera semplicemente non vende nel mercato europeo. Ovvio che è pura utopia, non passerà mai o se la faranno passare sarà in versione annacquata.

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