martedì 23 Aprile 2024

Non uscite dalla zona di comfort!

“Se volete ottenere i vostri obiettivi dovete essere pronti ad uscire dalla vostra zona di comfort!”. Quante volte vi siete sentiti dire questa frase? Ecco, l’ipnosi collettiva fa addirittura prendere per sacra, intelligente e profonda una frase di questo tipo, senza neppure soffermarsi sul significato letterale. Vediamo perché.

Partiamo dal significato di comfort: “L’insieme di sensazioni piacevoli derivanti da stimoli esterni o interni al nostro corpo, che ci procurano una sensazione di benessere in una determinata situazione” (wikipedia).

Quindi se già ti trovi in una situazione confortevole per quale motivo dovresti “uscirne” per ottenere nuovi obiettivi o risultati?

Una motivazione potrebbe essere che alcuni sono incastrati nel meccanismo (insano) della “Felicità Infelice“. Ovvero del non sapersi mai godere quel che si ha, pensando a quello che ancora non si ha. Si tratterebbe però di un problema psicologico da curare.

Il più delle volte, invece, la verità è un’altra: le persone che ricevono e accettano quel messaggio non si trovano affatto in una situazione di comfort, quindi è piuttosto stupido chiedere loro di uscire da una situazione che non stanno vivendo.

In questi anni ho fatto numerosi test per verificare questa mia teoria. Ogni volta che qualcuno mi diceva “Lo so, dovrei uscire dalla mia comfort zone“, io chiedevo: “Quindi mi stai dicendo che in questa situazione stai bene e provi benessere?”. La risposta era sempre la stessa: “Beh, certo che no!”.

Giustamente.

È chiaro quindi che il concetto di comfort zone viene interpretato ed usato in due modi distorti:

  1. Per indicare una serie di abitudini alle quali siamo affezionati, ma che ci danneggiano.
  2. Una momentanea condizione di benessere che nasconde un’insidia più grave (simile a quella della rana nella pentola piena di acqua calda, che poi finisce con il farsi bollire).

Facciamo un esempio pratico che includa entrambi i casi.

Sono un imprenditore che è abituato a lamentarsi dei propri collaboratori, senza affrontare mai direttamente le cause di questa insoddisfazione. Semplicemente passo tutto il giorno a rimuginare tra me e me tutto ciò che non fanno di buono, oppure mi sfogo continuamente con un socio o il mio partner. Questa in effetti è un’abitudine negativa, che qualcuno potrebbe ricondurre nella famosa “zona di comfort”, che includerebbe anche il secondo aspetto, ovvero la momentanea condizione di benessere (il momento in cui ci si sfoga e si ha così un temporaneo sollievo).

Ma se tu chiedessi a questo imprenditore: nella tua situazione attuale, provi benessere nello stare dentro la tua azienda e nell’interagire con i tuoi collaboratori? La risposta sarebbe sempre e solo una: NO.

Quindi lui non si trova affatto in una zona di comfort, sebbene l’abitudine lo porti a trovare temporaneo conforto nel lamentarsi!

L’affermazione che chi deve uscire dalla zona di comfort lo debba fare nonostante abbia l’impressione di stare già bene è una favoletta irreale, alla quale si tende a credere solo per pigrizia mentale.

Una persona che sta già veramente bene, quindi che si trova in una reale zona di comfort, non ha alcun motivo sensato per uscirne alla ricerca di “qualcosa di diverso”.

Immaginate di trovarvi in un luogo per voi piacevolissimo, che vi dà benessere ed energia, con attorno le persone a voi più care. Se qualcuno vi dicesse di andarvene da lì, per il vostro “bene”, perché quella rappresenta una pericolosissima zona di comfort, come reagireste? Ecco, ci siamo capiti.

Se invece pensi di essere in una zona di comfort, ma in realtà sei stressato, insoddisfatto e preoccupato, allora ha senso uscirne. Tanto non era una zona di comfort, bensì di “Scomfort“!

Il mio augurio è di trovare la vostra vera zona di comfort e, se possibile, di allargarla ulteriormente affinché coinvolga anche tutti i vostri collaboratori, oltre che le persone a voi più care. Anche questo rappresenterebbe un primo ed importante cambiamento culturale. 

[di Fabrizio Cotza]

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3 Commenti

  1. Giusto tre mesi fa, avevo suggerito a L’INDIPENDENTE di pubblicare se non proprio l’intero curricolo, almeno qualche nota di riferimento sui vari collaboratori (vedi le loro pubblicazioni), alcuni dei quali scrivono pezzi ben curati e degni di nota. La mia proposta non fu accolta, non ebbi nessuna risposta.
    Il signor Cotza, scegliendo WIKIPEDIA come fonte lessicale, si presenta da sè e il vacuo contenuto dell’articolo lo conferma.

    Credo che il tema richieda maggiore attenzione. Preciso che non sono sociologo, ma vivo da più di trent’anni in una delle zone più ricche e più densamente popolate d’Europa – l’Ile de France – in un Paese dove il capitalismo è tangibile e strutturata realtà quotidiana, ampiamente ispirata – per non dire pedissequamente imitata – da quella degli Stati Uniti, nazione con la quale i “cugini” intendono da sempre di misurarsi (come minimo) alla pari.
    “Uscire dalla confort zone”. Per aver sentito pronunciare questa formula magica nelle situazioni più diverse, ne ho dedotto che la sua fortuna sia principalmente dovuta alla sua ambiguità, alla sua polivalenza, tanto da rendere perfino inutile o superfluo accertarsi se la propria situazione sia più o meno e in che percentuale, confortevole. Del resto, ha davvero senso porsi tale domanda, quando viviamo un’epoca caratterizzata da una tale frenesia e una tale dinamica che quasi tutto concorre a mettere a dura prova la società e i singoli individui ?

    Potrebbe semplicemente significare un invito ad uscire dalla propria routine che, in quanto tale, comporta sempre una certa dose di noia e d’indolenza, più o meno funzionali, le vere preoccupazioni essendo ben altro. Puo’ anche essere la versione moderna della massima cara ai nostri nonni e genitori : “non adagiarti sugli allori”.
    Con molta e facilmente prevedibile probabilità, la stessa frase, puo’ concludere un qualsiasi colloquio o riunione durante la quale il proprio caposervizio ci inviterà – di prassi e comunque sia – a maggiore efficienza e maggiori risultati, nonostante la qualità accertata del nostro lavoro. Puo’ anche essere pronunciata nel corso di una conversazione con il proprio congiunto, per i motivi più svariati. E cosi via.

    “Uscire dalla confort zone” è sorella gemella di un’altra, celeberrima, sentenza che esalta l’iper-modernità : “be yourself” ! Essere sè stessi, ovvero la massima esaltazione del mito – imperituro – del “self made man” il cui orizzonte è e sarà sempre l’ultima frontiera, che, una volta valicata, aprirà a nuovi orizzonti e nuove frontiere. E qual è, nel 2022, l’ultima frontiera se non il singolo individuo ?

    [ Sinteticamente si potrebbe tracciare, attraverso i secoli, una retta con agli estremi le due sentenze seguenti : “Conosci te stesso” e “Sii te stesso” ].

    Con il lavoro svuotato del suo contenuto, della sua dignità, della sua etica e della sua utilità e con lo sgretolarsi progressivo del tessuto sociale l’iper-modernità ha appunto catapultato il singolo individuo – dopo averlo considerato commercialmente un “target”, un obiettivo – al centro dell’attenzione, al centro dell’arena virtuale dalla quale pero’ puo’ essere estromesso da un momento all’altro. Cio’ fatto, lo si inviterà a far prova di resilienza, che è anch’essa un modo per uscire dalla propria “confort zone”.

    • Mah, in realtà il significato di comfort in inglese è un’emozione che ti fa sentire sicuro sicuro e sollevato. Evidentemente, se sei un imprenditore insicuro e stressato, forse non dovresti fare l’imprenditore perché, per guidare un’azienda, sia essa piccola o grande, devi fare i conti con molti problemi quotidiani, molte lamentele e risolvere molte incomprensioni, derivate dall’utilizzo di un linguaggio più comune per farsi capire. Se non ti senti sicuro e sollevato all’interno di queste situazioni, è difficile costruire un’azienda sana ed efficace.
      Un altro concetto è che la genialità, la creatività e le soluzioni più efficaci nascono da situazioni complesse, ingarbugliate e stressanti che, ci sta, sia questo quello che si vuole dire con “esci dalla tua comfort-zone”. Però mi sembra più fuorviante il mal uso della lingua inglese nel linguaggio comune degli italiani, di quelli che si auto-etichettano “maestri del businnes”, formati nei corsetti copia-incolla filo-americani e che credono di aver capito chissachecosaequalegrandesegreto, piuttosto che la spiegazione di Cotza.
      Basti pensare che ora, quando uno sente “quel tipo è CEO!” si pensa subito ad una persona importante, con abito giacca-cravatta più valigetta, che comanda su tutti e decide lui, mentre invece CEO tradotto, non è altro che un classico amministratore delegato.
      Solo che CEO fa più scena.

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