martedì 1 Luglio 2025
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Da spazio degradato a presidio di resistenza sociale: gli Orti Urbani di Livorno

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La storia degli Orti Urbani di Livorno è una storia di presidio sociale, ambientale e culturale contro la speculazione edilizia e la cementificazione. Gli Orti Urbani sono una realtà di autogestione, di resistenza cittadina collettiva per la sostenibilità e la tutela del territorio, rappresentando un esempio concreto di restituzione di uno spazio degradato alla cittadinanza, con una forte attenzione alla trasparenza, all’inclusione e alla sostenibilità ambientale. A Livorno, come in tutta Italia, sono numerosi gli spazi e i terreni, sia pubblici che privati, lasciati in stato di abbandono da anni, alcuni comprendenti scheletri di edifici in cemento mai finiti. Gli Orti Urbani di Livorno si estendono su un’area di 6 ettari compresa tra via Goito, via dell’Ambrogiana, via dell’Erbuccia, via Corazzi e via da Verrazzano, in pieno centro cittadino, vicino al mare. Quest’area, che fino al 1973 era adibita a uso agricolo, è stata tramutata in area per servizi. Da quel giorno a oggi, la proprietà è passata nelle mani di ben 5 cooperative edili. Nessuno dei progetti presentati all’amministrazione comunale – impianti sportivi, centri commerciali, palazzi abitativi, strade e parcheggi – è mai partito. Di fatto, l’ultimo e unico uso per cui questo terreno è stato utilizzato è la coltivazione.

Da spazio abbandonato a realtà collettiva

Per 35 anni, un terreno situato in pieno centro a Livorno, storicamente adibito a coltivazioni e sottratto alla cittadinanza per realizzare opere mai avviate, è stato lasciato in completo stato di abbandono. Così, nel 2011, il Comitato Precari e Disoccupati di Livorno e i militanti della Ex caserma occupata decisero di ripulire l’ultima grande area verde del centro cittadino, ormai diventata una giungla di rovi e una discarica a cielo aperto, a non molta distanza dal mare e dalla famosa Terrazza Mascagni. La bonifica ha incluso la rimozione di rifiuti di ogni tipo, anche pericolosi – come l’amianto. Una volta che l’area è stata ripulita e che si sono formati i vari collettivi per la sua conservazione, è nata la diatriba con il Comune di Livorno. Quest’ultimo, quasi sfruttando il lavoro svolto da questi cittadini (e forse per impedire anche che prendessero piede iniziative dal basso, oltre a voler fare cassa), decise infatti di autorizzare la costruzione di opere nell’area. In questo modo il proprietario del terreno, che all’epoca era la Cooperativa Lavoratori delle Costruzioni (CLC), si trovò tra le mani un’area che acquisì un grande valore immobiliare, valutata tra i 3 e i 4 milioni di euro. Così partirono i nuovi piani di urbanizzazione e cementificazione. Il progetto, rimasto sostanzialmente invariato da allora, prevedeva, e prevede, la costruzione sul 20% dei 6 ettari di superficie totale dell’area. L’apertura del cantiere avrebbe però portato a chiudere tutta l’area, non solo la parte su cui si sarebbe edificato. E la storia rimane la medesima anche oggi. 

Nel 2016, quando ormai gli Orti Urbani erano una realtà collettiva affermata che aveva spezzato la lunga storia di abbandono e degrado, la CLC provò a utilizzare la forza e inviò gli operai con le ruspe sul posto, recintando la zona per iniziare i lavori. Una volta arrivati, gli operai trovarono i membri dei vari collettivi intenti a piantare alberi proprio lungo la recinzione, frapponendosi in maniera pacifica tra la zona verde e le ruspe. Il tentativo della CLC fallì: gli operai, infatti, non vollero forzare la situazione e si astennero dal proseguire ogni azione di fronte a persone pacifiche che si opponevano a quelle grandi macchine con la piantumazione di alberi. Vari sono i cittadini, anche molto anziani, come il novantenne Franco, che hanno ricevuto una denuncia per quell’azione pacifica contro le ruspe. Nel 2023 furono tutti assolti. Mentre scriviamo, si attende la discussione in Consiglio comunale della petizione firmata da 1200 cittadini che chiedono che non si costruisca e che si ritorni all’uso agricolo dell’area, così da non permettere cementificazione e speculazione edilizia. La petizione è stata sottoscritta per opporsi alla prima asta pubblica per la vendita dell’area, presso il Tribunale di Livorno, per una base d’asta di quasi 2 milioni di euro.

Uno spazio restituito alla città e ai cittadini

I collettivi che formano gli Orti Urbani hanno sempre rifiutato i tavoli di concertazione con l’amministrazione comunale, rifiutando in toto i progetti di cementificazione da essa proposti. L’aumento di porzioni di terreno coperte da cemento, infatti, è legata in maniera diretta a problematiche quali le ondate di calore e l’incapacità del suolo di ricevere e trattenere acqua, con i conseguenti allagamenti in caso di piogge intense. Proprio a Livorno, negli ultimi anni, si sono verificate diverse alluvioni che hanno causato molti morti tra la popolazione, ma i piani dell’amministrazione comunale non sono cambiati.  

Gli orti rappresentano uno spazio vissuto quotidianamente, aperto e senza barriere, che offre attività culturali, sociali e di aggregazione, coinvolgendo anche scuole e famiglie. L’area è attraversata da bambini che la usano come percorso sicuro da casa a scuola, evitando le trafficate strade livornesi e, soprattutto d’estate, ospita molte persone, tra cui mamme con figli che giocano e persone anziane che si riparano dal forte calore all’ombra degli alberi, conversando e fuggendo dalla solitudine casalinga. 

Nell’area degli Orti Urbani ci sono circa 100 particelle, ciascuna assegnata a una o più persone. Il collettivo funziona tramite assemblea, dove tutte le decisioni vengono prese collettivamente, anche da chi non possiede un orto – che può partecipare a condizione di condividere i valori del progetto. Il collettivo ha come scopo principale la restituzione e la gestione condivisa del grande spazio verde, mantenendo attività aperte e collettive come il cinema gratuito, cene popolari e il mercato contadino con prodotti a chilometro zero, promuovendo autosufficienza, sostenibilità e riduzione degli imballaggi, oltre a incentivare l’uso di contenitori riutilizzabili.

Le attività degli Orti Urbani

Fin dall’inizio e ancora oggi, gli orti vengono assegnati in appezzamenti di circa 5 metri per 5. Ogni persona o gruppo deve prendersi cura del proprio pezzo di terreno, mantenendolo pulito e in ordine. Non è obbligatorio coltivare ma è fondamentale la manutenzione e la cura. Le assegnazioni degli orti avvengono tramite una pagina dedicata, seguendo l’ordine cronologico delle richieste, per evitare favoritismi o raccomandazioni. In caso di abbandono, le particelle vengono riassegnate secondo questa procedura trasparente. Gli orti sono irrigati con acqua di una sorgente naturale che passa sotto l’area. La cementificazione metterebbe a rischio questa preziosa risorsa.

Non tutti i 6 ettari sono stati parcellizzati ma, in virtù dei princìpi che hanno spinto all’occupazione del terreno, sono stati mantenuti anche grandi spazi comuni. Tra questi c’è l’area ristoro dove vengono organizzate feste, cene di autofinanziamento ed eventi culturali e dove vengono svolte le assemblee nelle quali viene decisa ogni cosa in maniera collettiva e democratica. Vi sono poi il cinema estivo (gratuito), spazi per praticare sport, il mercato contadino autogestito e molto altro. Questi spazi favoriscono la socialità e l’aggregazione intergenerazionale, tutto in maniera autogestita e volontaria. 

Polonia: annunciati controlli ai confini con Germania e Lituania

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La Polonia introdurrà controlli temporanei lungo i confini con Germania e Lituania. L’annuncio è arrivato dal primo ministro del Paese Donald Tusk, che ha affermato che i controlli partiranno a partire dal 7 luglio. La scelta di aumentare i controlli al confine, spiega Tusk, intende contrastare l’immigrazione irregolare, specialmente il flusso di persone che entrano in Polonia dalla Germania. La Polonia non è il primo Paese che annuncia misure di contenimento delle entrate irregolari: quest’anno, anche Belgio e Germania hanno ripristinato i controlli alle frontiere.

In Italia continua a calare il numero degli affitti brevi turistici

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Nelle principali città italiane e nelle località di villeggiatura, per il primo anno dal post‑Covid è stata confermata una diminuzione dell’offerta di immobili destinati agli affitti brevi. L’unione di maggiori oneri, costi di gestione e fiscali più elevati e rendimenti netti deludenti ha infatti indotto molti proprietari a ritirare i propri immobili dal mercato degli affitti brevi, causandone una significativa contrazione. Tale andamento, tuttavia, non ha toccato i canoni medi di locazione, i quali continuano a salire, sospinti dalla domanda sempre solida e dalle nuove incombenze normative. Mentre il numero di annunci online è sceso di oltre 25mila unità in un solo anno, le tariffe restano infatti in crescita in quasi tutte le zone monitorate.

L’offerta di case in affitto breve è calata da 508.000 a 484.000 annunci online nell’ultimo anno, secondo i dati di AIGAB (Associazione Italiana Gestori Affitti Brevi). Marco Celani, presidente dell’associazione, ha spiegato a Il Sole 24 Ore che la riduzione — pari a circa 25.000 unità — è dovuta sia a chi è passato al contratto 4+4, sia a chi, non volendo adeguarsi alle nuove regole, ha preferito lasciare la casa sfitta. Le stime indicano che 50.000 unità sono uscite definitivamente dal mercato degli affitti brevi. Tra le cause primarie, il nuovo obbligo di inserire il Codice Identificativo Nazionale (finora rilasciati 586.000 CIN) e di dotare gli alloggi di estintori e rilevatori di gas, con sanzioni in caso di omissioni, ha imposto spese aggiuntive e tempi di adeguamento; tariffe medie giornaliere di 100–140 € valgono poco contro i costi di gestione e una fiscalità più gravosa, tanto che il 38,5 % degli ex‐host denuncia guadagni inferiori a quanto inizialmente atteso.

Se è vero che tale fenomeno sta determinando un’inversione di tendenza nel mercato immobiliare, con un aumento dell’offerta di affitti stabili destinati ai residenti, secondo l’ultimo report di Scenari Immobiliari per il quotidiano economico-finanziario i canoni medi delle locazioni brevi nelle grandi città italiane hanno fatto segnare incrementi compresi tra il +2,7 % di Milano (dove si mantengono i livelli più elevati) e il +5,4 % di Firenze. In alcune località balneari gli aumenti sfiorano il +6 % su base annua. Nel complesso, i prezzi sono cresciuti del 4,7 % e i rendimenti medi si attestano al +4,4 % rispetto a dodici mesi fa.

Secondo l’Istat, in Italia esistono 35 milioni di immobili residenziali, di cui 25 milioni occupati e 9 milioni sfitti. Di questi, 700.000 unità – circa il 2 % del complesso – sono destinate agli affitti brevi. La maggior parte degli appartamenti oggi offerti con questa formula non proviene da un passaggio diretto dal lungo termine, ma da immobili che i proprietari hanno ereditato (32%), o che un tempo abitavano in prima persona prima di trasferirsi altrove (28%), oppure erano rimasti vuoti per anni (26,1 %). Solo una minima parte (2,2 %) è stata trasformata da contratti di locazione di durata classica. Sul fronte fiscale, la cedolare secca al 26%, introdotta nel 2024, è stata applicata finora da appena l’11,3 % dei locatori di case brevi. Il trattamento agevolato si estende solo a chi dichiara canoni da almeno due unità, mentre sul primo appartamento rimane l’aliquota al 21%. Nel frattempo, Pro.Loco Tur ha presentato ricorso alla Corte di Giustizia UE contro il pacchetto Vida, che dal 1° luglio 2028 (o 2030, a seconda delle scelte nazionali) potrebbe introdurre l’IVA sui canoni dei portali online.

Che il mercato degli affitti brevi in Italia, dopo una lunga fase di crescita, avesse registrato un calo significativo è risultato evidente dallo scorso marzo, quando, secondo l’AIGAB, gli annunci online erano scesi da 75.000 a 66.660 dal mese di gennaio. La riduzione si era assestata all’11%, raggiungendo a Firenze il 20%. Le cause principali, oltre agli adempimenti richiesti a livello nazionale, si sono rivelate anche le nuove normative locali, come quella della Toscana che consente ai Comuni di imporre limiti o divieti nelle aree più turistiche. La legge toscana, nata da forti mobilitazioni cittadine, è stata impugnata dal governo per presunta violazione delle norme su concorrenza e libertà d’impresa. Lo scorso novembre, il collettivo “Salviamo Firenze” aveva inscenato una protesta simbolica contro gli affitti brevi, coprendo con adesivi rossi circa 500 key box, le scatole utilizzate dai proprietari per l’accesso agli appartamenti. Gli adesivi riportavano la scritta “Salviamo Firenze X Viverci”, un messaggio diretto contro la speculazione immobiliare che, secondo i manifestanti, stava trasformando il centro storico in un luogo sempre meno vivibile per i residenti. Proteste simili si sono verificate anche in altre città italiane, come Roma, dove gruppi locali hanno sabotato le key box in segno di protesta.

Parigi-Milano, collegamenti ferroviari sospesi per danni da maltempo

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I collegamenti ferroviari tra Milano e Parigi sono stati sospesi a causa dei danni provocati dai violenti temporali nella Savoia francese, al confine con l’Italia. SNCF ha annunciato che, per consentire la pulizia del fango e verificare eventuali danni ai binari, la sospensione dei treni — inclusi i regionali — durerà «almeno per qualche giorno», ma potrebbe prolungarsi in caso di interventi più complessi. Trenitalia ha cancellato gli AV per «condizioni meteo critiche in territorio estero», dato che i due servizi condividono la stessa linea. I temporali di lunedì, seguiti a un’ondata di caldo, hanno fatto esondare il torrente Charmaix a Modane, allagando strade.

L’AIEA smentisce Trump: nessun danno decisivo al nucleare iraniano

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Il danno statunitense al programma nucleare iraniano è stato «severo», ma «non totale», e la Repubblica Islamica ha tutte le capacità per riprendere l’arricchimento. A dirlo non sono le autorità iraniane, ma quelle dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Secondo il direttore dell’AIEA, Rafael Mariano Grossi, l’Iran ha «chiaramente» le possibilità di proseguire il proprio programma nucleare. I danni alle strutture non sono infatti tali da impedire a Teheran la ripresa delle operazioni, e le centrifughe potrebbero tornare operative entro qualche mese. Non è, tuttavia, una questione di tempistiche: «Le conoscenze ci sono e la capacità industriale pure», ha detto il direttore. «Dobbiamo capire che, operazioni militari o meno, il problema non si risolverà militarmente». Per bombardare l’Iran, gli USA hanno manipolato il contenuto di un rapporto dello stesso Grossi, accusando Teheran di stare costruendo una bomba atomica. In quel rapporto, l’AIEA non parlava di armi nucleari, ma Grossi ha affermato che «molte persone» gli hanno chiesto di inserire nel documento riferimenti alle presunte aspirazioni iraniane.

Le dichiarazioni di Rafael Grossi sono state rilasciate alla emittente statunitense CBS, in occasione di un’intervista con la giornalista Margaret Brennan. Nel corso dell’intervista, Grossi, pur rimanendo sul vago quando parla dei danni alle strutture iraniane, è piuttosto chiaro nello stabilire che questi non sono stati «totali» come invece affermato da Trump: «Francamente, non si può dire che tutto sia scomparso e che non ci sia più niente». Secondo Grossi, gli Stati Uniti sarebbero riusciti a infliggere danni significativi al programma nucleare iraniano, ma i dubbi circa l’efficacia degli attacchi sono diversi.

In primo luogo, resta ancora da capire dove siano quei 400 chilogrammi di uranio arricchito di cui l’Iran era a disposizione prima dell’attacco. Come rimarca la stessa Brennan, «questi vengono stoccati in piccoli contenitori, relativamente facili da spostare» e Teheran potrebbe averli trasferiti prima dell’attacco, come del resto sembravano suggerire le immagini satellitari dello stabilimento di Fordo scattate nei giorni antecedenti al bombardamento statunitense. «Possiamo supporre, e credo sia logico presumere, che quando [le autorità iraniane] hanno annunciato che avrebbero adottato misure di protezione» del programma nucleare, lo spostamento dei barili di uranio «rientrasse tra queste misure», ha detto Grossi. Successivamente, sottolinea Grossi, va considerato che «l’Iran aveva un programma molto vasto e ambizioso», ma soprattutto aveva, e ha tutt’ora, una solida base industriale, tecnologie avanzate, e sviluppate conoscenze tecniche: «Non si può “disinventare” tutto questo». La soluzione, insomma, non può essere militare; e questo non per ragioni politiche, ma per questioni strutturali: «Non si possono distruggere le conoscenze o le capacità» di qualcuno. Nel corso dell’intervista, come in quelle precedenti, Grossi ha rimarcato che quando si tratta di nucleare, non è una questione di tempi, ma che, se dovesse avanzare stime, l’Iran potrebbe riprendere l’arricchimento entro una «manciata di mesi».

In quella che è stata definita “Guerra dei 12 giorni”, Trump e Netanyahu hanno manipolato il contenuto di un rapporto dello stesso Grossi, in cui il direttore sosteneva che l’Iran stava aumentando l’arricchimento dell’uranio, accusando il Paese di tramare in segreto per dotarsi di armi atomiche. Tale ipotesi è poi stata smentita dallo stesso Grossi, oltre che da varie agenzie di intelligence statunitensi. Nel corso di questa ultima intervista, il direttore dell’AIEA è stato piuttosto esplicito: «Davvero, chi può credere che questo conflitto sia avvenuto a causa di un rapporto dell’AIEA?», ha detto Grossi. «Per l’agenzia, l’Iran non aveva armi nucleari». Ciò su cui il rapporto sollevava dubbi, «erano altre cose poco chiare. Ad esempio, avevamo trovato tracce di uranio in alcuni luoghi dell’Iran, che non rientravano nelle normali strutture dichiarate». Nessun riferimento, insomma, a presunte aspirazioni iraniane; Grossi tuttavia ha affermato di essere stato oggetto di pressione perché venissero inserite nel rapporto: «molti, posso assicurarvelo, dicevano: “Nel vostro rapporto, dovete dire che hanno armi nucleari, o che sono molto vicini ad averle”», ha rivelato il direttore. «Noi però non lo abbiamo fatto perché non era ciò che vedevamo».

Incendi in Turchia: 50mila evacuati

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In Turchia occidentale proseguono le operazioni antincendio dei Vigili del Fuoco per contrastare vasti roghi boschivi che da giorni devastano le province di Smirne e Manisa. Gli incendi hanno costretto all’evacuazione di oltre 50mila persone e alla chiusura temporanea dell’aeroporto di Smirne. Quattro villaggi sono stati sgomberati per precauzione. Elicotteri e aerei continuano a sganciare acqua sulle foreste in fiamme, mentre nella provincia di Hatay, al confine con la Siria, è stato domato un incendio che minacciava aree residenziali. Le autorità restano in allerta per evitare nuovi focolai.

AGCOM compie un nuovo passo nella lotta ai call center

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La piaga delle chiamate dei call center continua a flagellare i numeri telefonici degli italiani, spingendo molti a diffidare sistematicamente dei numeri sconosciuti. I tentativi di arginare il fenomeno si sono finora rivelati inefficaci, tanto che lo Stato ha deciso di cambiare approccio, spostando l’attenzione dalla fonte agli operatori telefonici. Il 19 luglio scatteranno infatti nuovi obblighi voluti dall’Autorità garante delle comunicazioni (AGCOM) nei confronti delle grandi compagnie di telecomunicazione, le quali dovranno introdurre delle “misure tecniche” utili a contrastare il problema.

La delibera di riferimento è stata approvata il 19 maggio e, a distanza di tre mesi, comincia finalmente ad entrare in vigore. Almeno in parte. Per cominciare, AGCOM chiede alle aziende di contrastare lo spoofing, ovvero la pratica di falsificare un numero di telefono per simulare un prefisso diverso da quello reale, uno stratagemma molto diffuso nei circuiti illegali del telemarketing e del teleselling. Se vi è mai capitato di richiamare un contatto sconosciuto e ricevere la notifica che “il numero è inesistente”, è probabile che abbiate avuto a che fare con questo fenomeno. Per combattere la piaga, il regolamento impone alle compagnie telefoniche di bloccare tutte le chiamate provenienti dall’estero che fingono di avere un prefisso italiano di rete fissa.

Trascorsi sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento, il 19 novembre prenderà dunque il via anche una seconda fase delle misure previste da AGCOM. In questo passaggio, il blocco delle chiamate con identificativo mascherato provenienti dall’estero verrà esteso anche alla rete mobile. Qui, però, la situazione si farà più delicata: per evitare di oscurare numeri legittimi, gli operatori internazionali dovranno verificare in tempo reale i contatti in entrata, confrontandoli con un archivio del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, che certifica quali recapiti siano effettivamente registrati in Italia.

Nel 2022, proprio il Ministero delle Imprese e del Made in Italy aveva introdotto il Registro pubblico delle opposizioni, un servizio gratuito che consente ai cittadini di segnalare alle aziende di telemarketing la volontà di non essere contattati. In teoria, questa misura avrebbe dovuto stroncare il problema alla radice, tuttavia la realtà si è rivelata ben più complessa, poiché il fenomeno affonda le sue radici in un’ampia rete di pratiche illecite. Se un’azienda di telemarketing non è regolarmente registrata, o se subappalta le chiamate a operatori esteri di dubbia trasparenza, l’efficacia del Registro risulta infatti gravemente compromessa.

Nonostante l’introduzione del Registro, nella sua relazione del 2023 il Garante per la protezione dei dati personali ha ammesso che “il fenomeno del telemarketing indesiderato non mostra cenni di sensibile regressione” e, anzi, aneddoticamente, è facile avere l’impressione che il numero di chiamate sia addirittura aumentato, facendo sempre più leva su realtà opache e aggressive, nonché sulla mancanza di un’adeguata “catena di controllo”.

Non è detto che queste nuove contromisure riescano davvero a mettere fine a questa forma di pestilenza telefonica, né che, una volta colpito un fronte, i call center non trovino nuove scappatoie per aggirare gli ostacoli. Tuttavia, AGCOM ha mantenuto attivo un tavolo tecnico a cui partecipano associazioni di consumatori, rappresentanze d’impresa, operatori di telecomunicazioni, esperti e altri soggetti coinvolti nella lotta contro lo spoofing. “Le attività del tavolo tecnico proseguiranno per identificare ulteriori misure, in grado di contrastare altre tecniche di contraffazione dell’identità del chiamante, anche nell’ambito delle chiamate gestite interamente sul territorio nazionale, monitorare l’andamento del fenomeno e assumere le iniziative necessarie”, annuncia l’Autorità.

Gaza: almeno 66 bambini sono morti di fame in meno di tre mesi

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Sono almeno 66 i bambini gazawi morti di fame dallo scorso 2 marzo. Il dato arriva dal ministero della Sanità di Gaza, ed è in linea con quanto comunicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità lo scorso mese, che parlava di almeno 57 bambini morti di fame. Qualche giorno fa, anche l’UNICEF ha lanciato un allarme carestia, sostenendo che oltre 5.000 bambini fra i sei mesi e i cinque anni risultavano ricoverati per malnutrizione acuta, il 150% in più rispetto allo scorso febbraio. Alla carestia e alla malnutrizione si aggiungono le condizioni sanitarie: tra i bambini della Striscia è infatti iniziata a circolare una forma di meningite, che gli ospedali faticano a contenere a causa della mancanza di antibiotici. Intanto, continuano anche i bombardamenti israeliani nella Striscia. Solo nella giornata di ieri, lunedì 30 giugno, Israele ha ucciso almeno 95 palestinesi.

Le condizioni in cui versano i bambini di Gaza peggiorano ogni giorno di più. Un mese fa l’OMS riportava che circa 71.000 bambini di età inferiore ai cinque anni risultavano a rischio di malnutrizione acuta. Secondo l’ultimo rapporto di UNICEF, risalente al 20 giugno, a maggio sono stati ricoverati 5.119 bambini per malnutrizione acuta, di cui 636 per malnutrizione acuta grave(SAM), la forma più letale di malnutrizione. «Nella Striscia di Gaza in soli 150 giorni, dall’inizio dell’anno alla fine di maggio, 16.736 bambini – una media di 112 al giorno – hanno avuto accesso alle cure riguardanti la malnutrizione», si legge nel rapporto.

Ai problemi di malnutrizione si sono recentemente aggiunti nuovi problemi sanitari, con l’emergere di casi di meningite tra i bambini. A dare l’allarme è l’ospedale di Nasser, situato a Khan Younis, nell’area meridionale della Striscia di Gaza. I media ufficiali di Hamas riportano di 35 casi nella sola struttura di Nasser, che tuttavia rischiano di essere ancora di più: accanto all’appello dell’ospedale di Khan Younis è infatti arrivato quello del Dottor Marwan Al-Homs, direttore degli ospedali da campo nella Striscia di Gaza, che ha affermato che anche l’Ospedale dei Martiri di Al-Aqsa (situato nel Governatorato di Deir al Balah, nel centro della Striscia) e altre strutture mediche a Gaza City e nel nord della Striscia di Gaza hanno registrato analoghi casi di meningite infantile. Al-Homs ha lanciato un allarme epidemia, sottolineando che il sovraffollamento nei rifugi, insieme alla mancanza di igiene personale e di un’alimentazione adeguata, sono tutti fattori che minacciano la diffusione di malattie tra i bambini. Il pericolo di una diffusione incontrollata viene aggravato dalla «mancanza delle più elementari misure preventive e terapeutiche».

Nel frattempo, continuano anche i bombardamenti nella Striscia. Solo nella giornata di ieri, Israele ha ucciso almeno 95 persone, di cui 39 in un attacco alla caffetteria Al-Baqa di Gaza City, usata dai giornalisti come punto di ritrovo per lavorare. Nell’attacco, sono stati uccisi due operatori mediatici. Sempre a Gaza City, nei distretti settentrionali della città, l’esercito israeliano ha lanciato ulteriori minacce di evacuazione forzata ai palestinesi, provocando una nuova ondata di sfollamenti. I carri armati israeliani si sono spinti anche nel sobborgo Al-Zaytun, nell’area sudoccidentale di Gaza City, uccidendo in totale 13 persone; in generale, a sudovest di Gaza, sono state uccise altre 10 persone. L’invasione terrestre si è espansa anche a Khan Younis, e le operazioni di demolizione sono continuate in tutta la Striscia.

In Cisgiordania, a Nablus, le operazioni di demolizione degli edifici sono continuate in tutta la giornata di ieri; nella stessa Nablus, i coloni hanno danneggiato alcuni veicoli dei palestinesi, mentre l’esercito ha chiuso una strada agricola che porta a un villaggio a est di Tulkarem. Lo stesso campo profughi di Tulkarem è stato bersaglio dei bulldozer israeliani, che hanno demolito 104 edifici tra cui alcune abitazioni. Nelle colline a sud di Hebron, i coloni hanno sradicato circa 150 olivi e bruciato alcuni terreni agricoli, mentre le forze di polizia hanno arrestato 15 palestinesi. Una persona è stata arrestata anche a Gerusalemme, dove l’esercito ha anche chiuso in anticipo un posto di blocco e lanciato gas lacrimogeni sulle auto dei palestinesi. A Jenin, invece, sono stati portati avanti i lavori di demolizione, che prevedono l’abbattimento di 95 edifici nel campo profughi, e l’esercito ha sparato colpi di arma da fuoco contro un gruppo di giornalisti. Le violenze dei coloni non hanno risparmiato neanche lo stesso esercito israeliano: nella notte tra domenica e lunedì, un gruppo di persone legate alla “Gioventù delle colline”, movimento estremista di coloni israeliani, ha appiccato incendi, danneggiato veicoli, spruzzato graffiti, e attaccato dei soldati in una base militare a nord di Ramallah.

Sicilia: assessora al turismo indagata per corruzione

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Elvira Amata, assessora al turismo della regione Sicilia, è indagata per corruzione. La notizia è stata diffusa da diverse agenzie di stampa, e Amata non ha rilasciato alcun commento; da quanto si apprende, la Guardia di finanza le ha notificato una richiesta di proroga delle indagini nei mesi scorsi. Amata è indagata nell’ambito di una indagine della procura di Palermo che coinvolge il presidente del Consiglio Regionale Gaetano Galvagno. La procura, di preciso, accusa Galvagno di avere assegnato a degli enti circa 300.000 euro di fondi regionali destinati a eventi, ricevendo in cambio l’assegnazione di incarichi a due suoi collaboratori.

Gli USA hanno tolto le sanzioni alla Siria

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Il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per cancellare le sanzioni statunitensi contro la Siria. Con tale decisione, Trump pone fine all’isolamento finanziario del Paese e riapre i canali con il Paese, per «fornire alla Siria una possibilità di farcela». Le sanzioni contro l’ex presidente siriano deposto Bashar al-Assad, i suoi collaboratori, i responsabili delle violazioni dei diritti umani, i trafficanti di droga, le persone legate alle attività con armi chimiche, lo Stato Islamico e gli affiliati di gruppi come ISIS e alleati rimarranno attive.