mercoledì 17 Dicembre 2025

Mohamed Shahin è vittima di una persecuzione politica: gli atti che lo dimostrano

Nessun legame con i terroristi, nessuna apologia di terrorismo: solo semplici «espressioni di pensiero» che, anche quando non condivise, in uno Stato di diritto sono «pienamente lecite». Lo stabilisce la Costituzione stessa e anche la Convenzione sui diritti dell’uomo. Queste le motivazioni con le quali la Corte d’Appello di Torino ha disposto la liberazione di Mohamed Shahin, detenuto in un CPR di Caltanissetta. L’imam di una delle moschee di Torino era stato oggetto di un decreto di espulsione lo scorso 24 novembre per aver definito Hamas un movimento di resistenza e aver dichiarato che quanto accaduto il 7 ottobre va inserito in un contesto di violenze commesse da Israele contro il popolo palestinese dal 1948 ad oggi. Su queste frasi il tribunale di Torino aveva aperto un’indagine, archiviata una settimana dopo perchè evidentemente il fatto non costituisce reato. Il ministero dell’Interno ha tuttavia deciso di procedere lo stesso con il decreto di espulsione, commettendo una grave violazione, non motivata da ragioni oggettive ma meramente politiche, che il provvedimento della Corte d’Appello smonta pezzo per pezzo.

A portare all’attenzione le frasi di Shahin, pronunciate lo scorso 9 ottobre, erano stati alcuni post della deputata e vice capogruppo di FdI, Augusta Montaruli. Il tribunale di Torino aveva aperto un’indagine, poi archiviata lo scorso 16 ottobre: quanto detto da Shahin rappresenta infatti «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato». Lo sottolinea la Corte d’Appello stessa, che ricorda come le sue dichiarazioni siano «pienamente lecite» secondo quanto previsto dalla nostra stessa Costituzione, all’art. 21, e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all’art. 10. Giudicare la condivisibilità o meno delle sue affermazioni non è compito dei giudici, insomma. E, in uno Stato di diritto, queste non possono incidere da sole sul giudizio di pericolosità del soggetto. «Contrariamente rispetto a quanto sostenuto dalla Questura», quindi, il fatto che Shahin ritratti o meno quanto detto non costituisce elemento di interesse per decidere in merito alla convalida di trattenimento in CPR. In aggiunta a ciò, sottolinea la Corte, va ricordato che le frasi di Shahin comprendevano anche un esplicito e netto rifiuto di ogni forma di violenza.

Eppure, il 24 novembre (oltre un mese l’archiviazione del procedimento sulle frasi incriminate), alcuni agenti di polizia lo fermano mentre accompagna i figli a scuola e lo portano in Questura. Qui gli viene notificato il decreto di espulsione verso l’Egitto, firmato dal ministro dell’Interno Piantedosi. Al centro del decreto vi sono le frasi pronunciate da Shahin, ma non solo. Il ministro, infatti, cita anche quanto avvenuto lo scorso 17 maggio, quando l’imam, insieme a un gruppo di circa 300 persone, aveva bloccato per circa una mezz’ora il traffico sulla tangenziale di Torino. Fino al 5 giugno di quest’anno l’azione, evidentemente di carattere non violento, ha rappresentato un illecito amministrativo, punibile con una multa. Con l’entrata in vigore del dl Sicurezza, questo si è trasformato in un reato penale. Sulla base di ciò, «la competente Autorità Giudiziaria ha concesso il nulla osta all’esecuzione dell’espulsione», riporta il decreto del ministro. La Corte d’Appello di Torino, nel riesaminare la richiesta di trattenimento in CPR, sottolinea proprio la natura non violenta delle azioni di Shahin e che non vi fosse altro «fattore peculiare concreto e indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». L’uomo, insomma, si trovava «meramente presente» sulla tangenziale insieme ad altre decine di attivisti.

Nel decreto di espulsione, il ministero riporta poi come Shahin sia «emerso all’attenzione sotto il profilo della sicurezza dello Stato per aver intrapreso un percorso di radicalizzazione religiosa connotata da una spiccata ideologia antisemita e poichè risultato in contatto con soggetti noti per la loro visione fondamentalista e violenta dell’Islam». Eppure, sottolinea ancora la Corte di Torino, i contatti con i soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo sono «isolati e decisamente datati» (risalgono al 2012 e al 2018, in quest’ultima occasione peraltro si trattava di una conversazione tra terzi) e sono stati «ampiamente spiegati e giustificati» dall’uomo. «Gli unici elementi che la Digos aveva in mano – spiega a L’Indipendente Feirus Jama, una degli avvocati di Shahin – erano antecedenti al 2018 e riguardavano il fatto che lui fosse stato avvicinato da un certo soggetto convertitosi all’Islam, che poi è morto nel 2013».

A corredare l’istanza del ministero dell’Interno, inoltre, vi sono motivazioni la cui natura politica è esplicita. Tra queste, il fatto che Shahin sia «promotore delle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese» o che le sue affermazioni abbiano avuto una «vasta risonanza mediatica». Posizioni che sarebbero «del tutto incompatibili con i principi democratici e i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano», oltre ad «una totale mancanza di integrazione sociale e culturale nel Paese ospitante». Anche qui, la Corte d’Appello interviene smentendo il ministero. Shahin ha infatti «prodotto documentazione che denota un concreto e attivo impegno del trattenuto in ordine alla salvaguardia dei valori su cui si fonda l’ordinamento dello Stato italiano, circostanza che si pone in netto contrasto con il giudizio di pericolosità» nei suoi confronti. Shahin è infatti una figura di riferimento di spicco a Torino anche per il lavoro che svolge all’interno della comunità che rappresenta, nel quartiere di San Salvario. Come ricorda il magistrato Livio Pepino, l’uomo è impegnato nelle attività di integrazione della comunità musulmana anche tramite l’insegnamento della Costituzione, oltre che essere stato insegnante di arabo.

Sono tanti gli elementi critici di questa storia. Tra questi, il fatto che l’uomo, invece che essere portato nel CPR di Torino, sia stato mandato fino a Caltanissetta. «Non abbiamo una risposta alla domanda sul perchè di questa decisione» riferisce Feirus Jama. Non si tratta di certo, come da lei sottolineato, di una questione di mancanza di spazio. In questo modo, tuttavia, l’imam è stato tenuto lontano dal suo territorio, dove la cittadinanza ha organizzato manifestazioni continue per il suo rilascio, oltre che dai suoi avvocati e dalla sua famiglia. Certo è che quanto avvenuto nei suoi confronti segna una precisa linea politica del governo: i critici del discorso ufficiale, soprattutto se arabi musulmani e con un ruolo di riferimento nella comunità, rischiano di veder calpestati i propri diritti, sanciti dai documenti fondanti del nostro Stato, pur di essere silenziati.

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Valeria Casolaro

Ha studiato giornalismo a Torino e Madrid. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, frequenta la magistrale in Antropologia. Prima di iniziare l’attività di giornalista ha lavorato nel campo delle migrazioni e della violenza di genere. Si occupa di diritti, migrazioni e movimenti sociali.

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