TULKAREM, PALESTINA OCCUPATA – Eliminare la denominazione di “campi profughi”, cancellando quella che è la radice storica dei refugee camp di Tulkarem e Jenin, e vietare l’accesso ai tre campi alle organizzazioni internazionali, con l’obbligo che sia l’Autorità Palestinese a fornire i servizi necessari e non più UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che dal 1948 si occupa dei profughi palestinesi. Sono queste le prime due condizioni sancite da Israele per il ritorno delle oltre 40mila persone sfollate dalle proprie case da 11 mesi. Imprescindibili, per Tel Aviv, che continua così nella sua lotta per cancellare il concetto di “profughi palestinesi” e quindi negare il “diritto al ritorno” che avrebbero alle terre dalla quale sono stati mandati via ormai 77 anni fa. Ma non solo. Israele pretende l’installazione di posti di blocco militari gestiti dall’Autorità Nazionale Palestinese all’ingresso degli “ex-refugee camp”, trasformati quindi in quartieri di Tulkarem e Jenin, e il dispiegamento della polizia palestinese al loro interno.
Tel Aviv ha inoltre dichiarato che il ritorno dei rifugiati nei campi sarà consentito solo dopo che l’esercito israeliano avrà completato la “riorganizzazione dell’area”, sottolineando che la ricostruzione delle strade deliberatamente distrutte durante le operazioni militari sarà effettuata in pieno coordinamento con l’esercito. La nuova data per la fine delle operazioni sarebbe il 31 gennaio. Ma è la terza volta che rimandano la ritirata dai territori di Jenin e Tulkarem, secondo gli accordi di Oslo classificati zona A, quindi sotto il completo controllo palestinese, dove teoricamente l’esercito israeliano non potrebbe nemmeno accedere. All’inizio l’esercito aveva detto che l’operazione Iron Wall – e la conseguente occupazione dei campi – sarebbe durava solo qualche giorno. Poi, avevano dichiarato che avrebbero lasciato il territorio il 31 agosto. Ad agosto la data è slittata il 31 ottobre, e i primi di novembre hanno rimandato ancora al 31 gennaio.
I campi profughi del nord della Cisgiordania occupata ricordano sempre di più Gaza. Interi quartieri sono stati distrutti, la geografia interna è stata modificata per adattarla alle esigenze dell’esercito di Tel Aviv. Centinaia di case sono state cancellate per lasciare il posto a grosse strade e ora i campi profughi del nord rischiano di diventare un terreno di sperimentazione militare e amministrativa per tutti i refugee camp palestinesi nei territori occupati da Israele. Le condizioni per porre fine all’operazione militare erano già state delineate dal coordinatore statunitense per gli affari di sicurezza in Cisgiordania, Michael R. Wenzel, e dai comandanti militari israeliani, nel corso di una serie di incontri tenutisi in estate ed esplicitate un paio di mesi fa, ma ora sono state riproposte con qualche modifica di contorno.
Le richieste israeliane di fine agosto includevano anche il reinsediamento di circa il 50% dei residenti dei campi profughi in alloggi dispersi lontano dal campo e restrizioni alla ricostruzione delle case distrutte da Israele. Gli abitanti di Tulkarem e Jenin denunciano che si tratta di un attacco all’esistenza dei campi profughi stessi, con lo sfollamento di quasi il 50% dei loro abitanti e la possibilità di tornare solo a coloro ai quali Tel Aviv concederà di farlo. Ossia uno sfollamento forzato definitivo per tutti coloro che sono sulle black-list israeliane, e per le loro famiglie. Una condizione che, anche se non approvata, vuole essere de facto, dato che le case delle famiglie dei martiri o di chiunque fosse identificato come membro della resistenza o suo solidale sono state sistematicamente distrutte, abbattute o bruciate durante questo quasi un anno di occupazione permanente. Insieme ad altre centinaia di altre. Una nuova, minore, seconda Nakba, nel silenzio della comunità internazionale. Si tratta infatti del più importante e lungo sfollamento della popolazione palestinese dal 1967.
Fino ad oggi l’Autorità Palestinese aveva limitati poteri sui campi profughi e la maggior parte dei servizi erano forniti da UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupava dei profughi palestinesi e che Israele sta da tempo cercando di eliminare. L’ANP non è benvoluta nei campi profughi del nord: accusata di collaborazionismo con Tel Aviv, molti dei rifugiati la considerano ormai una seconda forza di occupazione, specialmente dopo l’operazione durata 40 giorni contro il campo profughi di Jenin l’anno scorso. In quell’occasione la polizia palestinese ha circondato il campo rifugiati, ha distrutto infrastrutture civili e ha ucciso almeno 8 persone, dichiarando che l’operazione fosse fatta per proteggere la patria dai “fuorilegge”, ossia dai gruppi di resistenza palestinese che avevano la loro base a Jenin.
Per ora, tuttavia, l’ANP ha respinto la proposta di Tel Aviv, descrivendola come politicamente delicata e indicativa di un tentativo di “cancellare” la questione dei rifugiati.
Molti dei rifugiati credono comunque che le trattative in corso tra l’Autorità Palestinese e Israele non termineranno a loro favore. L’ANP ha interesse nel controllare i campi profughi, e vuole sradicare la resistenza armata che ha terreno fertile in quelle aree. Ma l’accordo con Israele deve ancora essere trovato.




