Come molte altre nazioni, anche l’Australia ha presentato il proprio piano politico sull’intelligenza artificiale. A differenza della direzione intrapresa dai poteri omologhi, però, Canberra non sembra intenzionata a partecipare alla corsa allo sviluppo tecnologico a ogni costo, preferendo piuttosto puntare su di un impiego sicuro degli strumenti digitali e sulla distribuzione equa dei benefici che questi promettono. Una prospettiva tutt’altro che radicale, ma che contrasta con le direzioni statunitensi ed europee, le quali coincidono sempre più con gli interessi delle grandi imprese.
Il progetto, pubblicato martedì 2 dicembre, mira a colmare i vuoti normativi australiani puntando su tre direttrici principali: attrarre investimenti per data center avanzati, promuovere e sviluppare le competenze necessarie a tutelare i posti di lavoro e garantire la sicurezza di una cittadinanza che, volente o nolente, sarà sempre più esposta ai sistemi di intelligenza artificiale. Non si tratta dunque di un piano ideologico incentrato sulle relazioni umane, bensì di una strategia che privilegia la dimensione economica. Tuttavia, questa impostazione viene esplicitamente presentata come un percorso volto a ridistribuire i benefici dell’innovazione, ridurre il divario digitale e migliorare l’efficienza dei servizi pubblici.
La retorica secondo cui l’adozione dell’IA genererebbe automaticamente nuovi posti di lavoro è un mantra ripetuto sia dai tecnoentusiasti che dalla classe politica. Nella pratica, però, la necessità di formare una nuova forza lavoro viene spesso considerata una conseguenza naturale dell’evoluzione del Mercato – al massimo sostenuta da qualche modesto incentivo – e non come il risultato di un piano politico strutturato. L’Australia, invece, promette interventi di upskilling sostanziali e un impiego della GenAI mirato ai servizi al pubblico e alla riduzione del carico di lavoro degli insegnanti. Parallelamente, algoritmi avanzati, integrati con dati satellitari del programma di Osservazione Terrestre, saranno utilizzati per progettare interventi nei settori agricolo e minerario.
Sul piano normativo, Canberra non intende varare nuove leggi, ma estendere quelle già in vigore affinché includano le casistiche legate all’intelligenza artificiale. La responsabilità di valutare i rischi delle tecnologie emergenti e di definire le policy più adeguate sarà delegata alle singole agenzie e ai rispettivi regolatori. Un compito complesso, che potrà tuttavia avvalersi della consulenza dell’AI Safety Institute (AISI), istituto in fase di costituzione annunciato lo scorso 25 novembre. L’AI Plan prevede inoltre una revisione approfondita delle normative sul diritto d’autore, software medici, ricerca scientifica e tutela dei consumatori: ambiti cruciali su cui il governo australiano è già al lavoro.
Ovviamente, la validità delle leggi potrà essere valutata solo nella loro fase applicativa. Anche i propositi migliori rischiano di indebolirsi sotto il peso di interpretazioni flessibili che finiscono per privilegiare gli interessi dei distributori e dei partner commerciali rispetto a quelli del mondo accademico e delle associazioni civili. L’Australia, tuttavia, ha già dimostrato in passato di saper fronteggiare le Big Tech per difendere le proprie linee politiche. Nonostante ciò, permane il dubbio che l’adozione di principi responsabili sull’intelligenza artificiale non basti a colmare una criticità più profonda, radicata a monte della dimensione applicativa: il controllo delle infrastrutture di IA da parte delle grandi aziende statunitensi.
Il fatto che la sicurezza, il lavoro e il benessere sociale non siano stati citati come sottoprodotti, ma come valori essenziali allo sviluppo tecnologico nazionale rende sicuramente onore ai politici australiani, ma resta da capire se il Governo avrà poi la forza di applicare concretamente le sue idee. Come spesso capita nella sfera del digitale, l’Australia finirà con il diventare un caso studio guardato con attenzione da tutti gli esperti del settore.




