Uno dei processi più importanti della storia recente del nostro Paese rischia di essere silenziosamente disinnescato. Il dibattimento per le violenze e le torture inflitte ai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, in piena ondata pandemica, potrebbe infatti subire una battuta d’arresto fatale dopo tre anni di udienze e decine di testimonianze agli atti. Nello specifico, la minaccia giunge da un ricorso alla Corte Costituzionale che alcuni difensori dei 105 imputati intendono sollevare, contestando la recente sostituzione del presidente del collegio giudicante. Una mossa che le parti civili temono possa essere un pretesto per far deragliare l’intero procedimento.
La vicenda processuale si è complicata dopo che il presidente originario, Roberto Donatiello, è stato trasferito alla Corte d’Appello di Napoli. Al suo posto è subentrata la magistrata Claudia Picciotti, che ha prontamente proseguito il calendario delle udienze verso una possibile sentenza nel 2026. Tuttavia, nella cornice dell’ultima udienza, alcuni avvocati difensori hanno chiesto alla Corte di sollevare una questione di legittimità costituzionale presso la Consulta, sostenendo una violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (articolo 25). Contestualmente, hanno anche formalmente richiesto alla Corte d’Appello di Napoli il provvedimento che dispone il trasferimento del giudice Donatiello. Secondo molti osservatori, si tratterebbe di una strategia dilatoria, finalizzata a rallentare il processo nella speranza che per alcuni imputati il reato di tortura possa essere derubricato a lesioni, divenendo così soggetto a prescrizione. La decisione spetta ora alla giudice Picciotti, che dovrebbe pronunciarsi nel merito già in occasione della prossima udienza.
Nella primavera del 2020, durante le prime settimane di lockdown a causa della pandemia da Covid-19, nel centro di detenzione campano scoppiarono violenti tafferugli sfociati dalle proteste dei detenuti a causa della difficile situazione sanitaria e il sovraffollamento delle celle, che rendevano impossibile il distanziamento sociale. Le telecamere di sicurezza ripresero la reazione brutale della polizia penitenziaria, che utilizzò manganelli, calci, pugni e testate contro i detenuti, spesso inermi e barcollanti. In seguito a questi eventi, diversi agenti furono sospesi dal servizio. Il processo avviato dall’inchiesta della Procura ha ipotizzato per circa cinquanta pubblici ufficiali il reato di tortura, fattispecie introdotta nel 2017, sottoposta negli ultimi anni al fuoco di fila dei principali azionisti della maggioranza di governo: all’inizio della legislatura, Fratelli d’Italia ha infatti presentato un progetto di legge alla Camera per abrogare il reato di tortura e istigazione alla tortura, proponendo invece l’introduzione di una nuova aggravante comune per adempiere agli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione contro la tortura (CAT), mentre il leader leghista e vicepremier Matteo Salvini ha più volte promesso ai poliziotti del Sap l’abrogazione del reato.
Il sindacato di Polizia Penitenziaria Uspp ha chiesto ripetutamente il reintegro degli agenti che, dopo i fatti, furono sospesi, affermando che la sospensione avrebbe causato gravi difficoltà economiche ai poliziotti penitenziari, soprattutto a quelli con posizioni considerate meno gravi. Grazie all’intervento di Andrea Delmastro, Sottosegretario alla giustizia del governo guidato da Giorgia Meloni, 22 agenti erano stati riammessi in servizio nell’agosto del 2023. Nell’estate dello scorso anno, sono stati raggiunti da altri sei membri della polizia penitenziaria coinvolti nel processo, che hanno ottenuto il reintegro. Nel settembre 2024, poi, altri 9 agenti sono potuti tornare al loro posto di lavoro.




