Tanto tuonò che piovve: al secondo tentativo, gli imputati hanno patteggiato la loro pena e il caso GEDI-INPS, che vedeva il gruppo editoriale accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato, è ufficialmente chiuso. Nel lunghissimo silenzio pneumatico e bipartisan delle altre testate italiane, che dell’accaduto non hanno scritto una riga, è arrivata a conclusione dopo sette anni la vicenda che riguarda una delle corazzate nel panorama dei media italiani. Dopo una cura dimagrante passata anche attraverso la cessione di una decina di giornali locali, il Gruppo GEDI ha tutt’ora nel suo portafoglio Repubblica, La Stampa, il Secolo XIX, ma anche periodici come l’Espresso e tre testate radiofoniche tra cui Radio DeeJay, piattaforme digitali e hub tematici. Cinque milioni di utenti al giorno, secondo quanto dichiarato, per i propri contenuti di informazione e di intrattenimento. Ancora più singolare, quindi, il black out informativo di giornali e tv sulla lunga e grave vicenda giudiziaria attraversata dal gruppo editoriale controllato dalla Exor, cassaforte della famiglia Agnelli-Elkann.

Tutto era iniziato nel 2018, all’epoca della gestione CIR (Compagnie Industriali Riunite) di Carlo De Benedetti, con l’avvio di un’indagine su presunti raggiri compiuti dal gruppo ai danni dell’erario e degli enti previdenziali, INPS e INAIL. L’accusa era piuttosto seria: truffa aggravata ai danni dello Stato per aver ottenuto CIG (Cassa Integrazione e Guadagno) e prepensionamenti a favore di circa 80 dei propri dipendenti senza averne diritto, con vari trucchi posti in essere tra i quali demansionamenti e trasferimenti fittizi degli stessi tra alcune aziende del gruppo. In una delle intercettazioni acquisite agli atti, l’amministratore delegato Monica Mondardini, tra gli imputati che hanno patteggiato davanti al GIP di Roma, risponde così ad un esperto giuslavorista che le parlava degli “artifizi” usati e dei finti trasferimenti di personale: «Lei crede che io sarei qui se fossero trasferiti realmente?». I vertici dell’azienda, che insieme ai prepensionati ed un paio di sindacalisti erano nel lungo elenco di indagati con alcune figure apicali (oltre alla Mondardini, anche Roberto Moro, ex capo del personale) hanno quindi scaricato sui conti pubblici il costo di stipendi e trattamenti pensionistici, con scivoli erogati a persone poco più che cinquantenni e che evidentemente non avevano titoli e requisiti per potervi accedere. Parallelamente, GEDI ha tratto ovviamente un indebito arricchimento per i soldi di stipendi e trattamenti pensionistici scaricati sui conti pubblici. Secondo la testata Primaonline che ha diffuso per prima la notizia, il giudice ha accolto la proposta di patteggiamento avanzata da 16 persone, tra le quali Mondardini e Moro, e cinque società del Gruppo GEDI (GEDI Gruppo Editoriale Spa, GEDI News Network Spa, GEDI Printing Spa, A. Manzoni & C. Spa ed Elemedia Spa).
Va ricordato, tuttavia, che non era la prima volta che gli imputati avevano chiesto un patteggiamento per chiudere la scomoda e spinosa faccenda. Nel dicembre 2023 infatti, il GIP Andrea Fanelli aveva bocciato la proposta proveniente – nell’occasione – da Mondardini e Moro, oltre che dalle cinque società di cui sopra, giudicandola sostanzialmente insufficiente e inadeguata alla gravità dei fatti. La Procura di Piazzale Clodio infatti, col procuratore aggiunto Paolo Ielo e la pm Claudia Terracina, aveva approvato l’istanza dei due imputati eccellenti concordando una condanna di 5 anni e 10 anni di reclusione con pena sospesa. Per quanto riguarda le società, era stato proposto un risarcimento del danno all’INPS di 16 milioni con l’offerta di 1,8 milioni in relazione ai profitti collegati ai reati contestati: peccato che, appunto, l’ingiusto profitto accumulato da GEDI che non ha pagato stipendi e contributi a decine di dipendenti, sia stato stimato nell’ordine dei 38,9 milioni. Tre anni fa infatti era stato disposto un sequestro preventivo di pari importo e oggi il GIP, tra le altre cose, ha anche deciso la restituzione di 19,2 milioni a Gedi. Rigettando l’istanza di patteggiamento, il giudice Fanelli ha evidentemente ritenuto troppo morbide le pene in relazione alle responsabilità dei manager imputati, ossia sproporzionate per difetto: una conclusione a tarallucci e vino, vidimata peraltro dalla procura. Peraltro, aveva creato non poche perplessità il fatto che la Procura avesse giudicato “un danno patrimoniale tenue” i 16 milioni da restituire all’INPS: anche questa circostanza era stata valutata dal giudice Fanelli come incongrua e irricevibile.

Secondo gli inquirenti che hanno aperto il fascicolo al seguito dell’indagine aperta dalla stessa INPS nel 2018, dopo segnalazioni pubblicate dal Fatto Quotidiano, i fatti contestati si sono svolti dal 2011 al 2015 grazie ad un triplice patto d’acciaio tra azienda, sindacati e dipendenti, con gli enti che nella migliore delle ipotesi sono restati a guardare: tra gli indagati figuravano anche due dipendenti INPS. Pensare che anni prima che si muovessero i magistrati, INPS Lazio aveva ricevuto una segnalazione anonima su presunte anomalie amministrative nel gruppo GEDI , ma nei successivi controlli – secondo il presidente dell’Istituto, Gabriella Di Michele – non era stata trovata nessuna irregolarità contabile. Per ottenere in modo illegittimo i prepensionamenti, i responsabili hanno provveduto ad effettuare trasferimenti fittizi di personale all’interno delle aziende del gruppo, sfruttando quelle che avevano diritto ad accedere agli ammortizzatori sociali erogati con cifre considerevoli. Ma sono stati anche certificati falsi esuberi e falsificati libretti di lavoro per poter dimostrare di essere in possesso del monte contributi necessario ad accedere allo status richiesto. Così come sono stati eseguiti palesi demansionamenti per trasferire personale da un’azienda all’altra, con qualifiche abbastanza fantasiose (manager e profili apicali diventati improvvisamente “grafici”).
I soci di maggioranza avevano chiesto di «conservare la marginalità del gruppo» e la GEDI è riuscita ad aumentare i profitti, riducendo il costo del lavoro e gli organici: peccato che per farlo abbia commesso dei reati che assumono un significato particolare, sotto al profilo dell’etica e della correttezza, per chi maneggia un bene prezioso come l’informazione in tutti i suoi aspetti previsti anche dalla Costituzione. Il tombale silenzio che è calato sulla vicenda, secondo gli inquirenti, si sarebbe potuto spiegare anche col fatto che GEDI forse non fosse l’unica a muoversi con tanta disinvoltura per aumentare i propri profitti e scaricare sui conti pubblici i costi del personale, nel panorama già gravemente ammalato dei media italiani, e che quindi come si dice, cane non morde cane. Si era vociferato, all’epoca, anche di imminenti ispezioni e verifiche incrociate tra procure ed enti previdenziali nei conti e nelle carte di altri grandi gruppi editoriali italiani, ma nei fatti nessuno se ne ha più sentito parlare. Dopo la conclusione dell’affaire-GEDI, probabilmente sarà ancora più difficile che possa succedere.




