giovedì 25 Dicembre 2025

Infezioni e carcasse nell’allevamento del gruppo Veronesi: l’impero dei marchi Aia e Negroni

Un’inchiesta fotografica e video-documentale dell’organizzazione ambientalista GreenPeace ha messo a nudo condizioni drammatiche nell’allevamento di suini La Pellegrina, a Roncoferraro (Mantova), di proprietà del Gruppo Veronesi, detentore di noti marchi come AIA, Negroni e Wudy. Le immagini mostrano, tra le altre cose, carcasse di suini abbandonate e infestazioni di ratti a contatto diretto con gli animali, ferite non trattate e ambienti angusti privi di luce naturale. Quanto emerge solleva interrogativi sanitari, di benessere animale e di rischio ambientale per aree protette nelle vicinanze: per questo, GreenPeace ha presentato un esposto alle autorità e ribadito il sostegno alla proposta di legge che vorrebbe andare «oltre gli allevamenti intensivi».

Le fotografie e i filmati documentano una convivenza pericolosa tra suini e roditori all’interno di box di gestazione e di pre-maternità, dove i ratti scorrazzano liberamente. In più punti si vedono carcasse di suinetti «morse o mangiate dai ratti» e animali morti lasciati a terra per oltre 24 ore. Come spiegato nel comunicato diramato dall’organizzazione, la presenza massiccia di roditori è più che un problema di scarsa igiene: aumenta il rischio di trasmissione di patologie (salmonellosi, leptospirosi, toxoplasmosi), la contaminazione dei mangimi e dei macchinari e può portare all’ingestione di carcasse avvelenate a causa dell’uso di rodenticidi. I problemi non si confinano all’interno dei capannoni. Riprese aeree rivelano una perdita di liquami dal sistema di smaltimento, con feci e urine riversate sul terreno aziendale. Questo comporta un concreto rischio di inquinamento per i terreni e le falde acquifere, in un’area particolarmente sensibile a pochi chilometri da ben cinque aree tutelate, tra cui la Zona Protetta di Vallazza.

Le condizioni fisiche dei maiali risultano gravi in diversi casi. Le scrofe presentano lacerazioni compatibili con gli spazi ristretti delle gabbie di maternità, e in alcune immagini si notano prolassi uterini non trattati, condizione che, se non curata, può provocare emorragie interne e la morte. Si documentano inoltre mutilazioni alle code dei suinetti, pratica usata negli allevamenti intensivi per prevenire il morso reciproco ma che indica al contempo livelli elevati di stress e sovraffollamento. Dalle riprese emergono anche segnali di gestione farmacologica frequente: bottiglie e confezioni di ossitocina per facilitare il parto e di anti-infiammatori come il ketoprofene. Pur non essendo farmaci vietati, la loro abbondante presenza è un indizio di malattie ricorrenti e di pratiche di controllo della produzione che puntano più alla produttività che alla cura. Si vedono, inoltre, guanti in lattice abbandonati in box maternità e carenze nelle pratiche di biosicurezza.

Questa denuncia non è inquadrata da GreenPeace come un caso isolato, bensì come sintomo di un sistema intensivo basato sull’iper-produzione che favorisce grandi aziende, marginalizza le piccole imprese e impone costi ambientali e sanitari alla collettività. L’organizzazione, insieme a una coalizione di associazioni, propone la legge “Oltre gli allevamenti intensivi” come strada per ridurre il numero di animali allevati, bloccare l’espansione degli impianti intensivi e avviare una transizione verso modelli a minor impatto. GreenPeace chiede al governo una moratoria immediata sui progetti di nuova costruzione o ampliamento di allevamenti intensivi e lo stop ai finanziamenti pubblici agli allevamenti intensivi; inoltre, si richiede l’adozione di politiche che valorizzino diete prevalentemente a base vegetale e misure efficaci per la tutela delle risorse idriche, nonché di evitare le importazioni di materie prime come la soia utilizzata come mangime e di imprimere un miglioramento all’attuale proposta di certificazione volontaria dei prodotti di origine animale.

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Stefano Baudino

Laureato in Mass Media e Politica, autore di dieci saggi su criminalità mafiosa e terrorismo. Interviene come esperto esterno in scuole e università con un modulo didattico sulla storia di Cosa nostra. Per L’Indipendente scrive di attualità, politica e mafia.

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1 commento

  1. Spostare il problema verso una alimentazione di tipo vegetale non risolve il problema di mancanza di sensibilità nei confronti dell’animale. Lo stesso tipo di insensibilità la possiamo trovare anche verso il mondo vegetale. Cosa ne sappiamo noi se una mela urla di meno quando la addentiamo, solo perché non abbiamo “l’udito” per sentirla. Questo tipo di insensibilità deriva da un approccio verso l’animale che viene considerato esclusivamente cibo, non come una creatura a cui dobbiamo chiedere il nostro perdono per il suo sacrificio. Ma tale aspetto spirituale non viene compreso se non addirittura deriso da una mentalità materialistica ed ipocrita che confonde morte con dolore e al tempo stesso si lava la coscienza con un approccio vegetariano che è la faccia della stessa medaglia materialistica. La materia è energia, un animale trattato male ci darà la stessa energia di come è stato trattato, così come un vegetale. Sono aspetti spirituali legati ad energie sottili che solo alcune culture hanno compreso. L’islam, ad esempio, adotta un metodo molto “morbido” per sacrificare un animale recidendo la vena carotidea e facendolo svenire anziché ucciderlo con una scossa da 12000 volt come noi occidentali. Quale memoria si porterà nel corpo un animale ucciso in questo modo?! Che salute potrà donarci?!
    L’approccio all’allevamento di creature viventi, vegetali o animali, parte da un atteggiamento olistico nei confronti della vita, un approccio che non deve coprirsi di becera ipocrisia buonista vegana, ma di consapevole e profondo rispetto del ruolo degli animali e dei vegetali e dell’uomo che chiede un così importante e fondamentale sacrificio al vivente che lo circonda.

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