Negli Stati Uniti, l’intelligenza artificiale ha iniziato a presentare il conto. Secondo l’ultimo rapporto di Challenger, Gray & Christmas, solo nel mese di ottobre 2025 sono stati annunciati 153.074 licenziamenti, un aumento del 175% rispetto all’anno precedente e il dato più alto dal 2003. È l’istantanea di una trasformazione epocale: in nome dell’efficienza e dell’automazione, interi comparti produttivi stanno sostituendo la manodopera con sistemi basati sull’AI. I manager la chiamano “ottimizzazione dei processi”, una formula tecnica utile per mascherare l’erosione sistematica del lavoro umano, che soppianta non solo le professioni manuali, ma anche i cosiddetti “colletti bianchi”.
Dall’inizio dell’anno, secondo il rapporto di Challenger, i tagli hanno superato quota 1,09 milioni, con un incremento del 65% rispetto al 2024. A ottobre, oltre 31.000 posti sono stati eliminati direttamente a causa dell’introduzione dell’intelligenza artificiale, per un totale di quasi 50.000 da gennaio. Le aziende tecnologiche restano il settore più colpito, con 33.281 licenziamenti, seguiti dal settore manifatturiero, dall’editoria, dai servizi di telecomunicazione e distribuzione (47.878 tagli), dove la robotica ha sostituito mansioni un tempo affidate a persone. «Alcuni settori stanno subendo una correzione dopo il boom delle assunzioni causato dalla pandemia», ha spiegato Andy Challenger, Chief revenue officer di Challenger, «una correzione dovuta all’adozione dell’intelligenza artificiale, al calo della spesa e all’aumento dei costi che spingono le imprese a congelare le assunzioni o ridurre il personale». In molti casi, si tratta di ristrutturazioni “preventive”: le imprese non attendono la crisi per ridurre il personale, ma anticipano il futuro, investendo in automazione e tagliando i costi umani. La geografia della disoccupazione riflette la mappa dell’innovazione: California, Georgia, Washington. Gli stessi Stati che avevano beneficiato dell’espansione digitale ora pagano il prezzo più alto, mostrando come la transizione tecnologica sia diventata una selezione darwiniana in tempo reale.
Economisti e sociologi parlano di una nuova “rivoluzione industriale”, ma il paragone è ingannevole rispetto al passato: allora, le macchine crearono anche nuovi mestieri, oggi l’intelligenza artificiale li cancella. Non solo le mansioni ripetitive, da “catena di montaggio”: l’AI erode persino le professioni creative, artistiche e cognitive, dagli analisti finanziari ai copywriter. La produttività sale, mentre l’occupazione crolla. Le assunzioni programmate per il 2025 sono scese al livello più basso dal 2011, con un -35% rispetto all’anno precedente. Già nel 2013, Benedikt Frey e Michael Osborne della Oxford University, autori del paper The Future of Employment e Technology at Work, avevano stimato che il 47% dei lavori negli Stati Uniti era a rischio automazione: previsioni in accordo con numerose altre ricerche e statistiche, rimaste inascoltate. L’euforia tecnologica che aveva invaso la Silicon Valley si sta rovesciando in una distopia tecnologica: la progressiva sostituzione dell’uomo con la macchina, che non si stanca, non si ammala, non reclama ferie né diritti.
In un mondo che idolatra la tecnica, l’uomo perde il diritto a essere imperfetto e la macchina diventa il nuovo centro della storia, riscrivendo i valori e i confini del possibile. L’automazione non è più un mezzo, ma un fine. È il “dislivello prometeico” di cui parlava Günther Anders: la tecnica avanza oltre la capacità umana di comprenderla. L’intelligenza artificiale non si limita a eseguire, ma modella linguaggio, decisioni e desideri. L’uomo diventa accessorio, un elemento fragile in una catena produttiva che tende a soppiantarlo e a trasformarlo in merce. La società, intanto, si abitua alla propria superfluità, mentre le istituzioni arrancano nel contenere l’impatto di una rivoluzione che non è solo economica e industriale, ma esistenziale e antropologica. Nel 2015, il professore della MIT Sloan School of Management Eric Brynjolfsson e il suo collaboratore Andrew McAfee in La nuova rivoluzione delle macchine sostenevano che la tecnologia stesse distruggendo più lavoro di quanto ne creasse: robot e automazione minacciavano ormai anche settori complessi come la medicina e la finanza. Dieci anni dopo, l’innovazione, invece di apportare benefici a tutti, come ci si aspettava, ha finito per accentuare le disuguaglianze globali: arricchisce pochi e impoverisce molti. La produttività continua a crescere, occupazione e redditi stagnano, mentre aziende e multinazionali si fanno sempre più ricche.





