SINJIL, PALESTINA OCCUPATA – «Questa terra l’ho ereditata da mio nonno,» dice Souad, lo sguardo triste, ma non rassegnato mentre osserva la collina piena di ulivi davanti a noi. «Sono 45 anni che la lavoro, fino ad oggi. Non era così prima. Erano pietre, rocce… ho speso molti soldi per questa terra. Per questo la vedi così.» Scuote la testa. «Questo è il primo anno che non posso raccogliere. I militari l’hanno dichiarata zona militare chiusa, e hai visto cosa è successo.» Souad è di Sinjil, un paesino palestinese a 15 km da Ramallah. Qui è nato circa 65 anni fa; i campi, gli uliveti, sono da sempre stati parte della sua vita, così come lo sono per decine di migliaia di famiglie palestinesi in Cisgiordania occupata. L’olio è l’oro verde della terra per i palestinesi, una risorsa economica ancora più importante dal 7ottobre 2023 a causa dell’aumento dei prezzi in Cisgiordania e della difficoltà economiche che toccano molte famiglie, rimaste senza lavoro.
La stagione delle olive sta volgendo al termine e quest’anno si sta caratterizzando come uno dei più violenti per i raccoglitori palestinesi. Secondo la Commissione per la resistenza al muro e agli insediamenti (la Wall and Settlement Resistance Commission), l’esercito israeliano e i coloni hanno compiuto un totale di 259 attacchi contro i raccoglitori di olive dall’inizio della stagione, ossia dai primi di ottobre fino al 28 del mese. Limitazioni di movimento per gli agricoltori, minacce, aggressioni fisiche, furti di olive, incendi e distruzione di alberi; tutte modalità che vengono utilizzate da anni per allontanare i palestinesi dalla propria terra, impedirgli la raccolta e lasciare i coloni prendersi sempre più terre.
Ad accompagnare Souad c’erano una decina di palestinesi e una ventina di attivisti internazionali venuti da tutto il mondo proprio a sostenere le comunità della Cisgiordania in questo delicato momento dell’anno. Appena arrivati, abbiamo trovato il cancello – uno dei 916 cancelli e barriere di metallo installate dagli israeliani in questi ultimi anni per aprire e chiudere a piacimento le strade e i villaggi palestinesi – di Sinjil chiuso. L’ordine che rendeva la zona una “closed military zone” l’abbiamo ricevuto mentre già camminavamo per gli uliveti. Questi ordini militari sono una delle forme per impedire la raccolta agli agricoltori: la forza occupante dichiara temporaneamente la zona “chiusa” ai civili, tendenzialmente proprio i giorni in cui la famiglia si appresta a raccogliere. È così che il 16 ottobre hanno arrestato 32 attivisti internazionali, la maggior parte israeliani, mentre partecipavano alla raccolta delle olive in uno dei villaggi che più subiscono la violenza dei coloni, Burin. Gli internazionali, che sostenevano la UAWC (Union of Agricultural Work Committees), una organizzazione palestinese senza scopo di lucro che si occupa di sviluppo agricolo – etichettata da Israele come organizzazione terroristica nel 2021 – dopo 72 ore di detenzione sono stati espulsi dal territorio. E alle famiglie palestinesi è stata impedita la raccolta.
La famiglia di Souad e gli attivisti, rastrelli in pugno, iniziano a tirare già le olive dai rami: non passa nemmeno mezz’ora che si presentano tre coloni a disturbare gli agricoltori, telefoni in mano filmando ogni volto. A qualche centinaio di metri, una colona israeliana pascola delle pecore.
Quasi immediatamente si presentano due militari, mitra in pugno e volto semi-coperto. Intimano di fermare il lavoro e andare via, quella è una zona militare chiusa e non sono autorizzati a raccogliere. Dietro, i coloni attendono le contrattazioni, le discussioni, e infine la raccolta dei materiali e l’abbandono del campo.
L’esercito israeliano e i coloni fanno parte dello stesso disegno di colonizzazione della Cisgiordania: la violenza dei secondi è spinta e sostenuta da buona parte della classe politica israeliana, che non solo ha regalato decine di migliaia di M-16 ai circa 700mila coloni illegali che abitano in almeno 270 colonie e avamposti, ma ne ha di fatto assicurato l’impunità davanti alla legge per eventuali crimini contro i palestinesi. Spesso si trovano coloni armati di bastoni, pietre, ma anche armi, minacciare o aggredire palestinesi con dietro i militari israeliani che osservano la scena senza intervenire se non per arrestare qualche palestinese. O per lanciare gas lacrimogeni e bombe stordenti per mandare via tutti.
Beita, una storia di resistenza
Beita è un paesino di 12mila abitanti a pochi chilometri da Nablus, nel nord della Cisgiordania occupata. Circondato da tre colonie e outpost, è un territorio in resistenza dall’inizio dell’occupazione sionista. La proteste si sono intensificate quando nel 2021 la popolazione del paese ha scoperto che il monte Sabih, accanto al villaggio, sarebbe diventato una nuova colonia. Settlers israeliani in pochi giorni iniziarono a portare caravan e a occupare la terra, costruendo l’avamposto di Evyatar. I cittadini di Beita risposero con una forte resistenza, durata senza interruzioni per tre mesi, nel tentativo – poi riuscito – di mandare via i nuovi coloni. Ma la zona rimase occupata dagli israeliani, che proposero di farne una base militare, e da anni tutti i venerdì dopo la preghiera gli abitanti si muovono in protesta per la cittadina. Di fatto i coloni tornarono e nel 2024, sfruttando l’ondata di occupazioni illegali post 7 ottobre, il governo ha comunque legalizzato l’outpost, dichiarando Evyatar una nuova colonia ufficiale, rubando 66 dunams di terra dai villaggi di Beita e Qabalans. È in una delle proteste del venerdì contro la nuova colonia che l’anno scorso, il 6 settembre 2024 Ayşenur Eygi è stata uccisa con un proiettile da un cecchino israeliano. L’attivista turco-americana era membro di ISM, il movimento di solidarietà internazionale che da anni sta accanto ai palestinesi in Cisgiordania. Ayşenur è così diventata la 18esima vittima uccisa dai soldati di Tel Aviv dal 2020 a Beita.

Anche qui la raccolta delle olive sta diventando ogni anno più complicata: sembra un film già visto, ma che si ripete a velocità e intensità ogni volta più forte. Coloni armati, incendi, furti e violenze di vario tipo contro la popolazione palestinese del villaggio, mentre sempre più terreni vengono raggiunti da ordini di chiusura militare e agli agricoltori viene impedita la raccolta.
Il 1° novembre una cinquantina di persone tra attivisti internazionali e palestinesi, si sono recati negli uliveti tra Beita e Osarin per raccogliere le olive. Nel gruppo erano presenti anche vari membri della Mezzaluna rossa, il pronto intervento nel caso ci fossero persone ferite. La normalità a Beita: ogni manifestazione finiva con qualche ferito, che fosse per proiettili, gas lacrimogeni, o altro. Un film già visto.

Nemmeno si era iniziato a raccogliere che tre macchine di militari e Border Police arrivano verso il gruppo e si avvicinano, armi in pugno. Ci riprendono coi telefonini, iniziano a chiedere documenti a vari attivisti e ai giornalisti palestinesi. Non vogliono che si raccolga in una certa zona, il perché, è oscuro. Di fatto ci circondano, e ci seguono per ore.
«La resistenza è anche questo» dice Kamal (nome di fantasia), abitante di Beita e membro della Mezzaluna rossa. «Stare qui, su questa terra, bere un caffè e fumare una sigaretta è una forma di resistenza». Sorride, mentre seduto a terra fuma una Capital e guarda i militari intorno a noi. «Hanno ucciso e ferito molte persone qui. Ma continuiamo a resistere. Non andremo via da questa terra.» Però, aggiunge, la situazione peggiora. Il pezzo di terra che i militari non ci lasciano raggiungere era sempre stato lavorato gli anni precedenti. «E’ la prima volta che non possiamo raccogliere lì» dice, indicando gli alberi poco lontano, oltre i militari.
Lungo la strada, a poche decine di metri da dove eravamo, una macchina giace carbonizzata. È ciò che resta di uno dei più recenti attacchi dei coloni, una ventina di giorni prima, quando in 70 hanno aggredito i palestinesi impegnati nella raccolta. Almeno 7 i feriti, tre le macchine in fiamme. I soldati israeliani, presenti sulla scena, hanno lasciato fare, impegnandosi solo a lanciare bombe stordenti e lacrimogeni contro i palestinesi che già provavano a sottrarsi alla violenza dei coloni. Gli attacchi si sono ripetuti in tutto il territorio della Cisgiordania, soprattutto nelle zone di Ramallah e Nablus, ma anche nel governatorato di Hebron, Jenin e Betlemme.

Mentre stavamo andando via, ci siamo fermati a mangiare al bordo della strada che riporta al paese di Osarin. Erano appena arrivati i falafel quando è scattato l’allarme: i coloni stanno scendendo dal settlement per attaccarci. Immediatamente si inizia la ritirata e il gruppo comincia a correre sopra la collina verso il villaggio. Appena in tempo. A poche decine di metri, spuntano una quindicina di coloni mascherati, bastoni in mano, alcuni lanciano pietre, ma siamo già lontani e sopra di loro, in posizione favorevole. Vari giovani palestinesi si tengono pronti a ricacciarli indietro, pietre in mano e una frombola, la memoria ancora vivida dell’ultimo sanguinoso attacco subito. I settlers rimangono lontani e poi si allontanano verso la colonia. Da non si sa bene dove vengono sparati due lacrimogeni contro di noi; nulla invece cerca di dissuadere i coloni dall’aggredirci.
La violenza dei coloni
Dal 7 ottobre 2023, i coloni hanno compiuto un totale di 7.154 attacchi contro cittadini palestinesi e le loro proprietà, causando la morte di 33 palestinesi in Cisgiordania. 14 solo dall’inizio dell’anno. Sommati alle morti causate dai militari di Tel Aviv, secondo l’agenzia di stampa Anadolu Ajansi in poco più di due anni sono stati uccisi 1.066 palestinesi in Cisgiordania, e oltre 10.300 i feriti. Mentre le aggressioni contro i palestinesi, le loro proprietà e le loro terre -agite da militari e coloni – supera le 38mila unità.
Sgomberi, demolizioni, arresti arbitrari e raid sono all’ordine del giorno. Almeno 33 le comunità beduine sgomberate con la forza.
Secondo la Commissione per la resistenza al muro e agli insediamenti, gli attacchi dell’occupazione israeliana e dei coloni hanno anche sradicato, distrutto o danneggiato un totale di 48.728 alberi, tra cui 37.237 ulivi.

Una violenza che sembra aumentare ogni anno, in perfetta linea con i progetto di occupazione e annessione territoriale sempre più esplicito di Tel Aviv. Mentre i coloni provano a scacciare con la violenza le comunità palestinesi e occupano nuove terre, il governo israeliano continua con la legalizzazione degli avamposti e la “statalizzazione” di ettari di terreni intorno alle colonie esistenti, la distruzione di proprietà palestinesi, gli arresti e l’occupazione di interi campi profughi nel nord del paese.
Il 19 ottobre, una quarantina di coloni ha aggredito un numeroso gruppo di palestinesi e internazionali impegnato nella raccolta delle ulive a Turmus Ayya, nei pressi di Nablus, dando fuoco a due macchine e ferendo almeno tre persone.
Due attivisti internazionali, Omar e Robin, erano parte de gruppo che è stato aggredito. «Domenica 19 ottobre siamo arrivati nell’uliveto, di proprietà di diverse famiglie palestinesi di Turmus Ayya. Questa comunità è a rischio a causa di una colonia che ormai già da tempo è sorta al limite della città, sopra una collina, e di nuovi insediamenti molto più recenti, di meno di un anno. A causa di questi ultimi il numero di aggressioni verso i palestinesi che si recano a fare attività nei loro uliveti da generazioni è estremamente a rischio. I coloni infatti spesso attaccano in massa, come questa volta,» racconta Omar, attivista italiano di ISM (International Solidarity Movement) a L’Indipendente.
«Due giorni prima c’era stato un attacco minore dei settlers durante la raccolta delle olive. Ma quel giorno fu ancora più violento,» continua Robin, anche lui attivista – svedese – parte di ISM.
«Non abbiamo fatto in tempo a raccogliere nemmeno un oliva. Di fatto appena siamo arrivati è iniziata l’aggressione; tutti hanno cominciato a scappare, ma c’era una donna che era rimasta indietro e non era riuscita a salire sulle macchine in partenza. I settlers l’hanno a raggiunta e uno ha iniziato a colpirla con un bastone in testa. La donna è caduta a terra, priva di sensi, ma il colono continuava a bastonarla brutalmente. Ci siamo messi in mezzo, cercando di attirare l’attenzione dei coloni su di noi; ha funzionato.» Nel video si vede uno dei due internazionali venire colpito ripetutamente da tre coloni. È Omar, che si era anche lui messo di traverso dopo che Robin era caduto a terra, colpito da pietre e bastonate.
La donna, sopra i cinquant’anni, è stata poi trasportata in ospedale con una emorragia cerebrale. Le hanno messo 25 punti.

«Questa donna è stata attaccata solo per essere una donna palestinese, e la sua unica colpa è di essere stata con la sua famiglia, a raccogliere le olive sulla sua terra. E per questo, è quasi morta.» continua Robin. L’attivista ha avuto una frattura al braccio destro, ferite in testa, sulle mani e sulle gambe. «Ma la violenza usata contro di noi non è equiparabile rispetto alla violenza agita contro i palestinesi, come verso quella donna». Robin è la terza volta che viene in Palestina; secondo la sua esperienza, ogni volta la violenza agita dagli israeliani di cui è testimone non fa che aumentare.
«Nel momento in cui i coloni israeliani se ne sono andati, è comparsa una camionetta militare della polizia di frontiera, la border police. In questi giorni di attivismo ho potuto notare come soldati, polizia di frontiera e coloni siano coordinati. Quindi come nel momento in cui i soldati non ci sono i coloni iniziano ad aggredire, e invece quando arrivano i militari – che sia la border police o i soldati dell’esercito- sono loro a cercare di allontanare i palestinesi dai campi, tramite la minaccia di arresti, lacrimogeni e bombe stordenti. In entrambi i casi le azioni che intraprendono sono tutte mirate verso l’intimidazione e l’aggressione alle comunità palestinesi,» conclude Omar.
Anche lui ha subito varie contusioni, e una ferita in testa. Ma non ha smesso di raccogliere insieme alle famiglie che chiedono una presenza internazionale nella speranza che la violenza dei coloni e dei militari si abbassi. «Dobbiamo stare al fianco dei palestinesi. Qui, come nei nostri paesi. Lottare l’occupazione. Stare al loro fianco, nella resistenza quotidiana», conclude Robin. «Finché la Palestina non sarà libera».




