«Oggi è una giornata storica»: così il presidente argentino Javier Milei ha celebrato la sorprendente vittoria alle elezioni legislative di metà mandato di ieri, domenica 26 ottobre. Con la promessa all’elettorato di proseguire con le riforme economiche intraprese, ha inoltre annunciato che l’Argentina avrà il parlamento «più riformista della storia». Si votava per rinnovare circa la metà dei seggi della Camera dei Deputati e un terzo di quelli del Senato: il partito di Milei, La Libertad Avanza (LLA), ha ottenuto quasi il 41% dei voti e ha vinto nelle sei più grandi province del Paese, tra cui quella di Buenos Aires, dove aveva subito una pesante sconfitta nelle elezioni provinciali del 7 settembre scorso. La principale forza di opposizione, la coalizione peronista di centrosinistra, si è fermata al 31%. L’affluenza è stata del 67,85%, un dato record dal ritorno della democrazia nel 1983, che conferma un calo della partecipazione degli elettori. La vittoria, che ribalta tutti i pronostici, è stata celebrata sui social dal presidente statunitense Donald Trump, che è intervenuto direttamente nella campagna elettorale con un piano di aiuti all’economia argentina e ha più volte minacciato di interromperlo nel caso in cui il suo alleato Milei fosse uscito sconfitto dalle urne.
L’Argentina, invece di archiviare la stagione delle ricette ultraliberiste, sembra volerla rilanciare, come se il dolore economico fosse solo un effetto collaterale necessario della “cura Milei”. Una cura che molti economisti definiscono “tossica”, ma che l’elettorato ha deciso di confermare, scommettendo ancora una volta sul presidente argentino, nonostante il calo di popolarità. Alcuni scandali, infatti, lo hanno coinvolto personalmente, a partire dal caso del meme-coin “Libra”, una cripto-moneta che Milei aveva promosso sui social, poi tracollata in borsa rovinando centinaia di investitori. Negli ultimi sei mesi, era sembrato che La Libertad Avanza dovesse ridimensionare i suoi obiettivi in queste elezioni, abbandonando le speranze di cambiare radicalmente la situazione in parlamento, controllato dalle opposizioni. Nell’ultimo comizio che si è tenuto giovedì nella città di Rosario, Milei già non brandiva più l’iconica motosega e ha chiamato gli elettori a «non arrendersi» e a «cambiare l’Argentina sul serio», promettendo per la seconda parte del mandato «le riforme di cui il Paese ha bisogno».
Dietro la narrazione trionfalista, l’Argentina resta un Paese lacerato. Dal suo insediamento nel dicembre 2023, Javier Milei ha promesso una “rivoluzione libertaria” fondata su drastici tagli allo Stato, deregolamentazione e più potere al mercato. Con il decreto urgente 70/2023 ha smantellato numerose leggi sociali e liberalizzato settori strategici come affitti, sanità, commercio estero e ambiente. In pochi mesi, l’inflazione – pur ridottasi rispetto ai picchi del 2023 – ha continuato a erodere i redditi, mentre i salari pubblici sono stati congelati e le sovvenzioni energetiche cancellate. Il deficit ha superato i tre miliardi di dollari nel secondo trimestre del 2025, aggravando la crisi sociale. Le classi medie si sono impoverite, i ceti popolari sono precipitati nella precarietà e le proteste sono tornate a moltiplicarsi nelle strade di Buenos Aires e nelle province. In questo scenario, gli Stati Uniti sono intervenuti con una linea di credito da 20 miliardi di dollari per sostenere le riserve della banca centrale argentina, un salvataggio politico che somiglia a un guinzaglio: l’Argentina, ancora una volta, si ritrova legata agli interessi geopolitici e finanziari degli Stati Uniti, che non regalano denaro, ma comprano influenza. Il prestito prevede nuove privatizzazioni, ulteriori tagli e un’apertura ancora più ampia al capitale straniero, accentuando la dipendenza del Paese da interessi esterni e riducendo la sua autonomia politica. L’appoggio plateale di Donald Trump alla campagna di Milei, culminato in un endorsement entusiasta, è il segnale più chiaro di questa convergenza: due populismi, due volti dello stesso capitalismo selvaggio.
Eppure, molti argentini hanno visto in Milei l’unico uomo disposto a “fare piazza pulita”. Il linguaggio della rottura, della rabbia contro “la casta”, ha funzionato meglio di qualsiasi programma economico. Le sue comparsate in televisione, i discorsi infuocati, il richiamo all’ordine e alla libertà assoluta hanno sedotto un elettorato esasperato, disposto a sacrificare persino le tutele sociali pur di punire il sistema politico tradizionale. Oggi, l’Argentina si risveglia con un governo più forte e un popolo più fragile. Milei può vantarsi di aver vinto la battaglia politica, ma la guerra economica è tutt’altro che conclusa: la sua “motosega” non ha tagliato gli sprechi, ha tagliato semmai il tessuto sociale. Dietro i sorrisi delle piazze e i tweet di congratulazioni americani, si intravede una nazione che rischia di essere svenduta a pezzi, tra shock economico e dipendenza estera. La sua vittoria non è la prova che l’Argentina crede nel neoliberismo: è la prova che non riesce più a immaginare un’alternativa. Milei potrà contare ora su un Parlamento più favorevole, ma il suo programma resta divisivo e incerto nei risultati. Il prezzo della fedeltà dell’Argentina al liberismo rischia di essere altissimo: un Paese più disciplinato nei conti, ma più diseguale, più vulnerabile e meno sovrano. E finché la libertà verrà confusa con la legge del più forte, la motosega continuerà a ronzare, scavando solchi sempre più profondi tra chi ha tutto e chi non ha più nulla.





