LA PAZ – È Rodrigo Paz Zamora, senatore centrista figlio dell’ex presidente Jaime Paz Zamora, il nuovo presidente della Bolivia. Dopo che le elezioni di agosto hanno sancito la fine di vent’anni di governo socialista nel Paese, al ballottaggio Paz ha infatti guadagnato il 54,5% delle preferenze, mentre il conservatore Jorge “Tuto” Quiroga si è fermato al 43,8%. Con la vittoria di Paz, la Bolivia entra in una nuova fase che promette “moderazione e dialogo”, ma che nei fatti segna il ritorno al pragmatismo neoliberale. Nel frattempo, da mesi il Paese si trova ad affrontare una critica mancanza di carburante e un’inflazione al galoppo (attualmente al 13%), mentre le riserve valutarie sono ridotte a meno di due miliardi di dollari, la moneta locale sta subendo una forte svalutazione, il debito pubblico è vicino all’80% del PIL e l’export di gas è in caduta libera.
Nel suo primo discorso all’Hotel Presidente, tra applausi e telecamere, Paz ha ringraziato «il sotto-segretario della presidenza Trump per la chiamata ricevuta», annunciando la volontà di «costruire una relazione stretta con uno dei governi più importanti del mondo» a partire dall’8 novembre, giorno del suo insediamento ufficiale al Palacio Quemado. Dietro la retorica della modernizzazione si intravede il ritorno della Bolivia nella sfera d’influenza statunitense, dopo due decenni di distanza.
Rodrigo Paz Zamora conquista così la presidenza della Bolivia per il quinquennio 2025-2030. Figlio dell’ex capo di Stato Jaime Paz Zamora, si è imposto come il volto sobrio del cambiamento, segnando nei fatti un ritorno al pragmatismo neoliberale. In campagna elettorale, Paz ha promesso “stabilità e crescita” attraverso riforme pro-mercato, decentralizzazione amministrativa e incentivi agli investimenti esteri. Il suo linguaggio è più sobrio di quello di Quiroga, ma la direzione resta la stessa: più mercato, meno Stato. Il suo piano economico prevede una revisione selettiva dei sussidi ai carburanti, che pesano per oltre 3 miliardi di dollari l’anno, incentivi agli investimenti stranieri e una decentralizzazione amministrativa che favorisca le regioni più produttive, in particolare Santa Cruz. Paz evita la parola “austerità”, preferendo parlare di «responsabilità fiscale»; non menziona privatizzazioni, ma di “alleanze pubblico-private”. Eppure, il lessico resta quello dei manuali del Fondo Monetario Internazionale.
Con un’inflazione sopra il 13%, un debito pubblico vicino all’80 % del PIL e riserve in valuta estera scese a 1,7 miliardi di dollari (erano 15 miliardi nel 2014), la Bolivia arriva al cambio di governo sull’orlo della bancarotta tecnica. Paz ha già annunciato colloqui con il FMI e la Banca Interamericana di Sviluppo per ottenere linee di credito “destinate alla stabilizzazione”. La sensazione diffusa è che la nuova Bolivia parli la lingua dei mercati, e che nel suo vocabolario — come altrove in America Latina — la parola indipendenza non si traduca più.
La vittoria di Paz è stata resa possibile anche grazie alla frattura interna al MAS, il partito socialista del Paese, con lo scontro aperto dei due leader Luis Arce, presidente uscente, ed Evo Morales, fondatore del partito e primo presidente indigeno. Morales è rimasto in carica dal 2006 al 2019: durante i suoi tre mandati, si è opposto alle ingerenze straniere nazionalizzando tutte le riserve di gas naturale e il settore energetico, promuovendo la riforma agraria e l’aumento dei salari. Considerata la ricchezza di risorse naturali della Bolivia, la nazionalizzazione e l’estromissione di multinazionali straniere dalla possibilità di sfruttare tali risorse hanno messo all’erta vari Paesi terzi, tra i quali Washington. Nel 2019, pur avendo vinto le elezioni, Morales fu costretto a dimettersi a seguito di un “golpe morbido”, e nel 2024 è stato oggetto di un nuovo tentato colpo di Stato che mirava a impedirne la ricandidatura. Negli scorsi mesi i Ponchos Rojos, il movimento indigeno che sostiene Morales, avevano indetto numerose proteste e blocchi del Paese per spingere Arce alle dimissioni e chiedere che ne fossero indette di nuove. Morales aveva infatti accusato Arce, oltre che di cattivo governo, di aver permesso «il ritorno di agenti statunitensi come CIA, DEA e USAID», dichiarazioni alle quali Arce aveva risposto accusando Morales di star tentando il «colpo di Stato». Negli scorsi mesi, oltre a denunciare un tentativo di attentato nei suoi confronti, Morales è anche stato accusato, con un certo tempismo rispetto alla campagna elettorale, di reati sessuali contro minorenni, accuse che lui ha sempre respinto: «Denuncio al mondo che sono vittima di una brutale guerra legale portata avanti dal governo di Luis Arce, che ha promesso di consegnarmi come trofeo di guerra agli Stati Uniti», aveva dichiarato. Le insanabili divergenze tra i due leader hanno fatto crollare l’appoggio al movimento socialista, che alle elezioni dello scorso agosto non è riuscito a ottenere più del 3% delle preferenze. Un risultato che, dopo vent’anni, riporta il Paese sotto l’ombrello di Washington.