Si apre un nuovo capitolo sul caso Almasri. La Corte Penale Internazionale ha infatti stabilito che l’Italia, non eseguendo correttamente la richiesta di arresto del generale libico dello scorso gennaio, non ha rispettato i propri obblighi internazionali. Le tre giudici della camera preliminare I de L’Aja hanno rilevato all’unanimità la mancanza di dovuta diligenza e hanno respinto le giustificazioni del governo sul trasferimento in Libia, ritenute «molto limitate». La Corte ha tuttavia rinviato una decisione sul deferimento, concedendo all’Italia tempo fino al 31 ottobre per fornire chiarimenti su eventuali procedimenti interni pertinenti alla vicenda. Tra questi, ci sono anche le carte dell’inchiesta a carico dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano, i quali, in seguito al respingimento dell’autorizzazione a procedere da parte della Camera, non potranno essere processati.
Dal documento, emerge che le giudici hanno sancito «all’unanimità che l’Italia non abbia agito con la dovuta diligenza né utilizzato tutti i mezzi ragionevoli a sua disposizione per ottemperare alla richiesta di cooperazione» della Corte dell’Aja. L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, mette ancora nero su bianco la CPI, non ha fornito «alcuna valida ragione giuridica o ragionevole giustificazione» per il trasferimento immediato dell’uomo in Libia, «anziché consultare preventivamente la Corte o cercare di rettificare eventuali difetti percepiti nella procedura d’arresto». Le giudici hanno definito «molto limitate» le spiegazioni attraverso cui il governo italiano ha cercato di giustificare le proprie azioni (che a detta dei protagonisti della vicenda sarebbero state basate su «motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni»), sottolineando che «non è chiara» la scelta di trasportare Almasri «in aereo verso la Libia».
Sebbene le autorità italiane abbiano avuto «ampio tempo a disposizione» e vi siano stati «ripetuti tentativi d’interloquire con il ministero della Giustizia italiano», nella pronuncia si spiega che l’Italia non ha mai contattato la Corte per «risolvere eventuali ostacoli» in merito al mandato d’arresto e alla «presunta richiesta d’estradizione concorrente» da parte della Libia. Così, la CPI non ha potuto esercitare le proprie funzioni. La Corte ha inoltre evidenziato come le questioni di diritto interno non possano essere invocate al fine di giustificare una mancata cooperazione con la CPI. Pur avendo rilevato la violazione, le giudici hanno deciso di non rinviare immediatamente la questione all’Assemblea degli Stati parte né al Consiglio di sicurezza dell’ONU, riconoscendo la «complessità» della materia. Con voto di maggioranza, è stata accordata al governo una proroga fino a venerdì 31 ottobre per trasmettere ulteriori spiegazioni e documenti su eventuali procedimenti interni legati alla vicenda.
Almasri, soprannominato «il torturatore di Tripoli» dalle organizzazioni che investigano la situazione dei migranti in Libia, si trovava a Torino quando, lo scorso 19 gennaio, è stato arrestato dalle forze dell’ordine italiane su segnalazione dell’Interpol. Su di lui pendeva un ordine di arresto segreto della Corte Penale Internazionale (CPI) con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità, principalmente per quanto accade all’interno delle carceri libiche. La Corte d’Appello di Roma ha però giudicato «irrituale» l’operazione, sostenendo che la polizia italiana non avesse l’autorità per agire, come prevedono le norme sulla cooperazione con la Corte dell’Aia, senza una preventiva autorizzazione del ministro della Giustizia. Il ministro della giustizia Nordio, a quel punto, avrebbe potuto sanare la situazione dando l’autorizzazione per convalidare l’arresto, ma non è intervenuto. In un informativa al Parlamento, Nordio si è difeso dicendo che il mandato è «arrivato in lingua inglese senza essere tradotto con una serie di criticità che avrebbero reso impossibile l’immediata adesione del ministero alla richiesta arrivata dalla Corte d’appello». Tra questa sorta di barriera linguistica, cui Nordio ha fatto più volte riferimento, e il «pasticcio» formale della CPI, il guardasigilli – almeno secondo la sua versione – avrebbe tardato nella lettura degli atti, che in ogni caso avrebbe giudicato «nulli». Così, Almasri è stato scarcerato, con il ministro dell’Interno Piantedosi che ha firmato un decreto di espulsione, dichiarandolo «soggetto pericoloso» e vietandogli l’ingresso in Italia per 15 anni. Almasri è stato quindi riportato in Libia su un aereo dei servizi segreti italiani.
Investito della questione in seguito alla denuncia presentata sul caso dall’avvocato Luigi Li Gotti, lo scorso agosto il Tribunale dei Ministri aveva archiviato la posizione della premier Giorgia Meloni, chiedendo invece l’autorizzazione a procedere per i ministri Nordio e Piantedosi e per il sottosegretario Alfredo Mantovano, indagati per favoreggiamento, con ulteriori accuse di peculato e rifiuto di atti d’ufficio. Il 9 ottobre, la Camera dei deputati ha però respinto definitivamente la richiesta di processare i tre membri del governo: come previsto, la maggioranza di centrodestra ha votato compatta contro l’autorizzazione a procedere: 251 voti contrari per Nordio, 252 per Mantovano e 256 per Piantedosi, con circa venti voti provenienti anche da parte dell’opposizione. L’esito comporta per loro l’archiviazione delle indagini, mentre resta aperta l’inchiesta sulla capo di gabinetto del Ministero della Giustizia, Giusi Bartolozzi, seguita dalla Procura di Roma.