Il governo ha presentato ieri il Documento programmatico di bilancio in cui, tra le altre cose, spicca il provvedimento che prevede il taglio dell’IRPEF dal 35% al 33% per la seconda aliquota IRPEF, vale a dire quella con un reddito compreso tra i 28.000 e i 50.000 euro. L’iniziativa fiscale implica uno stanziamento nel triennio 2026-2028 pari a circa nove miliardi di euro. A rimanere escluse dalla riduzione fiscale sono però le fasce di reddito più povere, quelle con un guadagno pari o inferiore ai 28.000 euro. Una scelta dettata dal fatto che che la cosiddetta classe media comprende la platea più ampia di contribuenti: circa 12 milioni tra dipendenti, pensionati e lavoratori autonomi e il risparmio generato dalla riduzione del carico fiscale può portare a uno stimolo dei consumi interni, ossia a un aumento della domanda interna, elemento centrale per dare ossigeno all’economia. «Anche la prossima legge di bilancio proseguirà il percorso di riduzione della tassazione sui redditi da lavoro che il Governo sta portando avanti dall’inizio della legislatura», si legge nella nota del Ministero di Economia e Finanza (MEF), in cui è specificato anche che «Al fine di favorire l’adeguamento salariale al costo della vita sono stanziati per il 2026 circa 2 miliardi».
Il risparmio effettivo che la riduzione della pressione fiscale produrrebbe varia a seconda dei diversi profili lavorativi e in base al reddito: un impiegato con reddito 35.000 euro lordi, che oggi paga circa 8.100 euro di IRPEF lorda (prima delle detrazioni), risparmierebbe circa 440 euro all’anno, pari a 37 euro al mese in busta paga. Un professionista autonomo con reddito 45.000 euro lordi potrebbe, invece, arrivare a risparmiare fino a 680-750 euro annui, l’equivalente di una mensilità di contributi previdenziali. Il massimo beneficio della riforma però riguarda i lavoratori dipendenti con un reddito di 50.000 euro lordi: in questo caso, il risparmio teorico sfiora gli 800 euro annui. Tuttavia, bisogna anche considerare che in questo scaglione entrano in gioco i tetti alle detrazioni che potrebbero ridurre l’effetto netto. Per quanto riguarda l’effetto combinato con altre misure (ad esempio assegno unico per i figli o un mutuo prima casa con relativo scarico degli interessi passivi), il taglio IRPEF si somma alle misure ma non le moltiplica.
I tecnici del ministero dell’Economia hanno dovuto trovare un compromesso tra la cosiddetta stabilità dei conti pubblici e la necessità di alleggerire la classe media da un carico fiscale eccessivo al fine di favorire i consumi. I vincoli di bilancio imposti da Bruxelles lasciano uno scarso margine di manovra per interventi di questo tipo, in quanto ogni punto percentuale di riduzione costa alle casse pubbliche circa 1,5 miliardi di euro. Per questo il governo potrebbe rivedere il sistema delle detrazioni che oggi consiste in decine di micro-agevolazioni spesso inefficienti. La rigidità imposta sul deficit dalla Commissione europea potrebbe anche stare alla base della mancata riduzione dell’aliquota per gli scaglioni più poveri, in base alla considerazione che lo stimolo ai consumi è trainato più dalla classe media che non da quella più povera. Tuttavia, il fatto che in Italia gli individui in povertà assoluta sono oltre 5,7 milioni (9,8% del totale dei residenti), in linea con le stime dell’anno precedente, dovrebbe far riflettere sull’importanza di applicare nuove misure anche per le fasce di reddito più basse.
Come anticipato, la riforma ha l’obiettivo macroeconomico di stimolare i consumi interni aumentando il potere d’acquisto nelle fasce di reddito con maggiore propensione alla spesa. Secondo i dati delle precedenti riforme, infatti, i contribuenti compresi in una fascia di reddito tra i 25.000 e i 50.000 euro tendono a spendere rapidamente il risparmio aggiuntivo destinando circa il 70-80% del beneficio fiscale a consumi immediati come spesa alimentare, abbigliamento, tempo libero e piccole manutenzioni domestiche. Il governo stima un effetto moltiplicatore pari a 1,3: vale a dire che ogni euro in più lasciato ai contribuenti dovrebbe generare 1,30 euro di PIL attraverso la catena dei consumi. Il che dovrebbe tradursi in un incremento del PIL di circa 0,2-0,3 punti percentuali nel biennio 2026-2027. L’aumento dei consumi andrebbe soprattutto a beneficio di settori strategici come il retail, la ristorazione, il turismo domestico.
Il provvedimento dovrebbe entrare in vigore dal primo gennaio 2026: l’impatto di vedrà già sulle buste paga di gennaio per i lavoratori dipendenti. Per gli autonomi, invece, l’effetto si misurerà nella dichiarazione dei redditi 2027 (anno d’imposta 2026). La Manovra economica 2026 dovrebbe completare l’iter parlamentare entro la fine di dicembre dell’anno corrente, con pubblicazione in Gazzetta Ufficiale nei primi giorni di gennaio.
…e come sempre non si vede un lira in più.
Dove non arriva lo Stato arriva il privato con donazioni volontarie, quando possibile, alle classi meno abbienti. Ma ormai la coperta è così corta da lasciare scoperti molti piedi, anche tra le classi cosiddette medie. Una società povera genera poveri, e i ricchi sono solo un effetto collaterale di ricette economiche sbagliate, pronte a creare diseguaglianze e privilegi, a cui nessuno però riesce a rinunciare. Più le diseguaglianze crescono e più le tensioni sociali crescono sino a non poter esser più ignorate e nemmeno controllate. Temo che ci sia una precisa volontà di creare questa condizione. Come per ogni fenomeno sociale colui che ha di più deve muoversi volontariamente verso colui che ha di meno. Proprio in questa semplice volontà si può far venire alo scoperto il vero artefice di tutto ciò, cioè colui che non fara mai un gesto di carità essendo lo stesso che trae vantaggio approfittandosi in tutti i sensi della povertà altrui.