Negli ultimi giorni l’Ecuador è scosso da un’ondata di proteste e disordini di portata nazionale, esplosi dopo la decisione del presidente Daniel Noboa di abolire il sussidio sul diesel, in vigore dal 1974. La misura, che ha fatto impennare il prezzo del carburante da 1,80 a 2,80 dollari al gallone, ha innescato un focolaio di conflitto sociale con manifestazioni che attraversano il Paese, dalle grandi città alle province rurali. Contadini, trasportatori, pescatori, studenti e comunità indigene denunciano un provvedimento che incide pesantemente sul costo della vita e lo considerano l’ennesima espressione di un modello neoliberista responsabile di profonde disuguaglianze. A guidare la risposta è la CONAIE, la storica Confederazione delle Nazionalità Indigene, che ha proclamato uno sciopero nazionale a oltranza. Le immagini che arrivano dalle strade raccontano un Paese spaccato: blocchi stradali lungo la Panamericana, barricate improvvisate con tronchi e pietre, marce di migliaia di persone a Quito e Cuenca, slogan contro il governo gridati al ritmo di tamburi e corni tradizionali. In diverse città i manifestanti hanno occupato piazze e ponti, mentre gruppi di studenti universitari si sono uniti alla protesta. Il 16 settembre a Cuenca oltre centomila persone hanno partecipato alla “marcia dell’acqua” in difesa della riserva naturale di Quimsacocha, ribadendo il rifiuto del progetto minerario di Loma Grande. La mobilitazione, sostenuta anche dalle autorità locali, è stata una delle più imponenti e pacifiche nella storia della città.
Le forze dell’ordine hanno risposto alle proteste con lanci di lacrimogeni, idranti e arresti: gli scontri più duri si sono registrati a Latacunga e Riobamba, con decine di feriti. A Guayaquil, seconda città del Paese, la tensione è esplosa nei mercati e nei quartieri popolari per l’aumento dei prezzi dei trasporti e dei beni alimentari. Il governo ha denunciato “atti di vandalismo” e promesso tolleranza zero, mentre la CONAIE accusa le autorità di criminalizzare la protesta e di reprimere indiscriminatamente intere comunità. La linea scelta da Noboa è stata di estrema fermezza. Il presidente ha dichiarato lo stato d’emergenza in sette province (Carchi, Imbabura, Pichincha, Azuay, Bolivar, Cotopaxi e Santo Domingo) per 60 giorni e imposto un coprifuoco notturno in cinque di esse, dalle 22 alle 5 del mattino. Secondo il Decreto Esecutivo 134, i manifestanti “hanno alterato l’ordine pubblico, provocando situazioni di violenza che mettono a rischio la sicurezza dei cittadini e i loro diritti alla libera circolazione, al lavoro e all’esercizio delle attività economiche”. L’esercito è stato mobilitato per presidiare ministeri, caserme e vie di accesso alla capitale, mentre colonne di blindati hanno fatto il loro ingresso nei centri urbani a titolo di deterrenza. Il Palazzo di Carondelet, sede della presidenza a Quito, è stato circondato da barriere e filo spinato, e la sede operativa del governo è stata temporaneamente trasferita a Cotopaxi, simbolico epicentro della rivolta indigena. Noboa ha dichiarato che chi promuove disordini rischia accuse di terrorismo, avvertendo che non intende ritirare il decreto. Le ripercussioni sono pesanti. I trasporti interprovinciali sono paralizzati, i rifornimenti di cibo e carburante arrivano a singhiozzo, mentre in alcune aree rurali i mercati sono rimasti chiusi per giorni. L’istruzione è stata sospesa in più province e l’attività amministrativa procede a ritmo ridotto. Nonostante ciò, la mobilitazione non si spegne: la CONAIE ribadisce che continuerà fino alla revoca del decreto e rilancia richieste più ampie, come la riduzione dell’IVA dal 15 al 12% e l’apertura di un tavolo nazionale sul modello economico. La protesta ha anche una forte valenza simbolica: i popoli indigeni, che rappresentano circa il 25% della popolazione, si pongono come voce di un malcontento diffuso e come forza politica capace di influenzare la stabilità istituzionale, come già accaduto in passato con la caduta di governi travolti dalle mobilitazioni popolari. Durante la storia del Paese, si sono registrati diversi tentativi di abrogazione del sussidio statale, ma in ogni circostanza, le reazioni dure e contrarie da parte della popolazione hanno fatto desistere le intenzioni dei governi di turno, come nel 2019 e nel 2022. Allora come oggi, le proteste non si sono fatte attendere.
La crisi in corso mette a nudo le contraddizioni di un sistema economico improntato al neoliberismo che, seguendo le direttive del programma del Fondo Monetario Internazionale, ha aumentato il tasso di disoccupazione e portato quello della povertà al 24% con un incremento degli omicidi del 47% rispetto al primo semestre dell’anno precedente. L’eliminazione dei sussidi al carburante non è che l’ultimo atto di una lunga stagione di riforme che hanno progressivamente smantellato i meccanismi di protezione sociale, scaricando sulle classi popolari il peso degli aggiustamenti fiscali. A questo si aggiunge la politica estrattiva: concessioni minerarie e petrolifere stanno trasformando territori ancestrali e fragili ecosistemi amazzonici in aree di sfruttamento intensivo. Le conseguenze sono devastanti: contaminazione delle acque, deforestazione, conflitti territoriali e perdita di biodiversità. Per i movimenti sociali, tutto questo rappresenta il volto concreto del neoliberismo, che non si misura solo in cifre di bilancio, ma nella quotidiana erosione dei diritti e nella marginalizzazione delle comunità rurali. La politica fiscale, con l’aumento dell’IVA e la riduzione degli investimenti pubblici, accentua ulteriormente le diseguaglianze. La popolazione paga di più per i beni di prima necessità, mentre i grandi gruppi economici e gli investitori internazionali beneficiano della stabilità promessa dal governo. Non sorprende che la rabbia esploda sotto forma di protesta radicale: per chi vive nelle campagne e nelle periferie urbane, il neoliberismo significa salari bassi, prezzi alti, servizi pubblici carenti e territori sacrificati all’estrattivismo. L’attuale rivolta, dunque, non è soltanto contro un decreto, ma contro un intero modello che produce esclusione sociale e precarietà. È il segnale di una frattura più profonda: quella tra uno Stato che persegue politiche di aggiustamento in nome della finanza globale e una popolazione che rivendica dignità, giustizia sociale e un futuro diverso.
El pueblo unido, y mas serà vencido.