venerdì 31 Ottobre 2025

La morte di Charlie Kirk come scusa per rastrellare la rete

Il 10 settembre, Charlie Kirk, influencer e attivista di spicco del movimento MAGA statunitense, è stato assassinato in un campus dello Utah, ucciso da un colpo d’arma da fuoco al collo. Prima ancora che venisse confermato il decesso o identificato il colpevole, i principali volti dell’estrema destra hanno indirizzato accuse alla “sinistra”, al mondo “woke”, alle persone trans e ai movimenti antifa. In breve tempo, questa narrativa si è tradotta in una campagna di doxing contro chiunque avesse espresso opinioni sulla vittima che potessero essere intese in chiave negativa.

Figura divisiva per eccellenza, Kirk era noto per le sue posizioni controverse: antiabortista, negazionista del cambiamento climatico, sostenitore dell’idea che le donne dovessero privilegiare la maternità rispetto al lavoro. Era un megafono della disinformazione trumpiana e un fervente difensore del diritto a possedere armi. A suo dire, “valeva la pena” accettare qualche vittima in sparatorie pur di difendere la sacralità del Secondo Emendamento. Non sorprende quindi che il suo omicidio abbia suscitato reazioni polarizzate, incluse esternazioni apertamente celebrative.

Le motivazioni dell’attentato restano ancora oggi oscure e non sembrano riconducibili a uno schema politico lineare. Nei giorni successivi all’attentato è stato arrestato un sospetto, Tyler Robinson, 22 anni, il quale non sta però collaborando con gli inquirenti. Quel poco che è emerso dal profilo pubblico del giovane lascia intendere che le sue visioni politiche siano incoerenti, che integrino al loro interno elementi appartenenti all’intero spettro ideologico. Ciò non ha impedito al presidente Donald Trump di attribuire la responsabilità alla “sinistra radicale”, rea di equiparare le idee di Kirk alla dottrina nazista. “Questa retorica è direttamente responsabile del terrorismo che stiamo vedendo oggi nella nazione e deve essere fermata immediatamente”, ha dichiarato in conferenza stampa.

L’alt-right si è rapidamente mobilitata. “Se siete così malati da celebrare la sua morte, preparatevi a vedere distrutte le vostre aspirazioni professionali”, ha scritto su X Laura Loomer, influencer vicina all’amministrazione Trump e una delle celebrità che han deciso di indurre i propri follower a segnalare ai datori di lavoro chiunque avesse reagito positivamente all’assassinio di Kirk. Intorno a questa “missione” è sorto addirittura un portale, charliesmurderers, il quale raccoglieva e pubblicava le informazioni pubbliche di tutti coloro che venivano considerati colpevoli di odio.

Il sito, lanciato in forma anonima, ospitava screenshot di profili social e ha innescato ondate di cyberbullismo contro i soggetti che sono stati esposti. La definizione di contenuto celebrativo si è dimostrata peraltro estremamente elastica: la giornalista Rachel Gilmore, ad esempio, è stata presa di mira per un messaggio che, letto oggi, appare più premonitore che aggressivo. “Sono terrorizzata all’idea che i fan di estrema destra di Kirk possano trasformare questo lutto in un’occasione di ulteriore radicalizzazione”, aveva scritto su X. “Finiranno con il credere che le loro paure sono state confermate e penseranno di avere il diritto di ‘vendicarsi’ a prescindere da chi ci sia veramente dietro alla sparatoria?”.

charlie kirk murderers
L’homepage del sito charliemurderers.com. In primo piano è scritto: «Charlie Kirk è stato assassinato.
Un tuo dipendente o studente sta supportando la violenza politica online? Cercali su questo sito web».

Oggi charliesmurderers risulta inaccessibile (ma non cancellato) e l’iniziativa è confluita in un sito meno esplicito e compromettente, gestito da un account denominato Charlie Kirk Data Foundation. Nel frattempo, le campagne di denuncia mosse dall’alt-right hanno già avuto conseguenze tangibili: oltre alle numerose molestie ricevute dai bersagli, secondo un’inchiesta di Al Jazeera, almeno 15 persone sono state licenziate per le opinioni espresse nei confronti dell’attentato. Una statistica in progressiva crescita. L’attività di denuncia assumerebbe una proporzione ancora più importante qualora si realizzassero le intenzioni del Segretario di Stato Marco Rubio, il quale sostiene che bisognerebbe revocare il visto a tutti coloro che celebrano l’assassinio di un personaggio politico. “Perché mai dovremmo voler portare nel nostro Paese persone che adotteranno comportamenti negativi e distruttivi?”, ha dichiarato ai microfoni di Fox News.

L’incontro tra politica e doxing non è un fenomeno inedito. Già all’indomani dell’assalto al Campidoglio era comparso il controverso sito Faces of the Riot, il quale raccoglieva immagini e video caricati su social Parler dai manifestanti, facilitandone l’identificazione attraverso il crowdsourcing. Nel 2018, una strategia simile era stata adottata dall’artista Kyle McDonald per individuare i funzionari dell’agenzia di immigrazione statunitense. Ciò che avviene oggi non è quindi un episodio isolato, ma l’ennesimo passo in un’escalation che vede il web trasformarsi in strumento di sorveglianza partecipata. Una deriva degna d’attenzione, soprattutto perché non si limita a colpire chi compie azioni illegali, ma tende a criminalizzare la parola stessa.

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Walter Ferri

Giornalista milanese, per L’Indipendente si occupa della stesura di articoli di analisi nel campo della tecnologia, dei diritti informatici, della privacy e dei nuovi media, indagando le implicazioni sociali ed etiche delle nuove tecnologie. È coautore e curatore del libro Sopravvivere nell'era dell'Intelligenza Artificiale.

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8 Commenti

  1. . . . e sinceramente, io non vorrei mai assumere un dipendente che esulta per l’assassinio di un innocente solo perché le sue idee, per quanto diverse o controverse, non collimano con le proprie. Kirk aveva il diritto di esprimere le sue opinioni, così come chiunque altro, e celebrare la sua morte è un segnale di intolleranza che non può essere giustificato.

  2. Ho letto con attenzione il vostro articolo sull’assassinio di Charlie Kirk e non posso fare a meno di esprimere la mia profonda delusione per un pezzo che, pur partendo da un tema importante come l’escalation della violenza politica e il doxing online, finisce per rivelarsi profondamente di parte. Presentate il movente dell’omicidio come “ancora oggi oscuro” e “non riconducibile a uno schema politico lineare”, dipingendo il sospettato Tyler Robinson come un giovane con “visioni politiche incoerenti” che mescolano elementi da tutto lo spettro ideologico. Eppure, a una settimana dall’accaduto, le indagini hanno già chiarito aspetti cruciali che il vostro articolo ignora o minimizza, fornendo un quadro ben più netto e politico. Questo non è giornalismo equilibrato, ma una narrazione selettiva che sembra più interessata a criticare la destra che a riportare i fatti completi.Partiamo dai fatti emersi dalle indagini ufficiali e dalle dichiarazioni delle autorità. Tyler Robinson, 22 anni, è stato arrestato e formalmente accusato di omicidio aggravato, con i procuratori dello Utah che hanno annunciato l’intenzione di richiedere la pena di morte, proprio perché l’attacco è stato qualificato come “politicamente motivato”. Il governatore repubblicano Spencer Cox ha dichiarato esplicitamente che Robinson era “profondamente indottrinato con ideologia di sinistra” e che aveva espresso odio verso Kirk per le sue posizioni percepite come “piena di odio e che diffonde odio”. Durante una cena familiare poco prima dell’omicidio, Robinson aveva discusso apertamente dell’evento di Kirk all’Utah Valley University, criticandolo aspramente per le sue idee. Non si tratta di “incoerenze ideologiche”, ma di un odio mirato verso un attivista conservatore noto per le sue battaglie contro l’agenda “woke”, inclusa l’opposizione alle transizioni di genere per i minori e alla partecipazione di atleti transgender nello sport femminile.E qui arriviamo al punto che il vostro articolo tralascia del tutto, come se non fosse rilevante: Robinson era fidanzato con un partner transgender (un uomo in transizione verso il femminile), con cui condivideva un appartamento a St. George, Utah. Fonti dell’FBI hanno confermato questa relazione romantica, e il partner sta collaborando pienamente con le indagini, fornendo prove chiave come messaggi e dispositivi elettronici. Robinson aveva un’ossessione per Kirk, tracciava i suoi eventi online e aveva lasciato una nota esplicita al coinquilino: “Avevo l’opportunità di eliminare Charlie Kirk e la prenderò”. Le indagini puntano proprio su questo odio personale e ideologico, alimentato dalle posizioni anti-trans di Kirk, come un movente centrale. Non è una “speculazione”, ma un elemento emerso da testi, interviste e prove materiali – inclusi bossoli con scritte ironiche da comunità online, ma coerenti con un profilo di qualcuno immerso in ambienti di estrema sinistra online.Ignorare questi dettagli non solo distorce la realtà, ma perpetua una narrazione che minimizza la responsabilità della retorica “woke” e della polarizzazione sinistra-destra, focalizzandosi solo sulle reazioni della destra (il doxing, le minacce di Trump e Rubio) mentre si tace sul fatto che l’assassino proveniva proprio da quel mondo che Kirk criticava aspramente. È come se l’articolo volesse equiparare le vittime alle loro reazioni, senza ammettere che la violenza è partita da un’ideologia specifica. Questo mi delude profondamente, perché L’Indipendente dovrebbe essere un faro di indipendenza, non un’eco di media allineati che selezionano i fatti per far quadrare la tesi preconfezionata.La violenza politica è un dramma che colpisce tutti, e il doxing è una deriva pericolosa da condannare senza se e senza ma. Ma per combatterla davvero, serve onestà: ammettere che l’omicidio di Kirk non è stato un “mistero ideologico”, ma un atto politico di sinistra contro un simbolo conservatore. Altrimenti, contribuiamo noi stessi alla divisione, non alla verità. Con rammarico, Giuseppe

    • Buongiorno, sono l’autore dell’articolo e colgo l’occasione del suo commento per esplorare più a fondo questi elementi, che in effetti sono stati glissati.

      Nel valutare il profilo del sospettato, Tyler Robinson, eviterei di tenere in considerazione le opinioni della classe politica statunitense, la quale ha già dimostrato di voler pilotare la narrazione proponendo letture che non hanno nessuna relazione con i fatti. Nel tratteggiare (comunque superficialmente) il personaggio, ho dunque fatto riferimento a quanto evidenziato nei giorni scorsi dalle indagini. È innegabile che avesse manifestato odio nei confronti di Charlie Kirk e l’FBI ha accennato all’esistenza di una relazione con una donna transessuale. Non ritengo però che questi due fattori delineino un profilo politico, poiché non rappresentano ideologie, ma preferenze personali. Abbiamo molti casi che evidenziano come soggetti conservatori vivano la loro sessualità e la famiglia in antitesi con i valori politici da loro formalmente sostenuti.

      Se ci limitiamo alle sole affermazioni ideologiche, Robinson ha un retaggio profondamente Repubblicano, ma non ha mai votato. Ha evidenziato elementi antifa (alcune incisioni sui proiettili), ma ha pubblicato sui social anche alcuni tratti che sono ricollegabili ai Groypers, “movimento” cristiano ultranazionalista che attacca i conservatori meno estremisti. Per ora, insomma, pare che sia più guidato da un calderone generico di stimoli (di internet) e di motivazioni personali, più che da un’idea politica definita. Una lettura che rispecchierebbe quanto già visto in molti precedenti.

      Il “woke”, nella sua accezione dispregiativa odierna, non rappresenta un’ideologia, ma un termine denigratorio. Viene spesso adoperato per criticare una certa idea di “sinistra al caviale” o per definire un fantomatico avversario che non è caratterizzato se non da elementi di massima che sono più emotivi che concreti. Quando hanno chiesto una definizione specifica di “woke” allo staff di Ron DeSantis, politico spiccatamente conservatore, i suoi portavoce hanno peso le distanze dall’uso comune che se ne fa e hanno semplicemente detto che è “la convinzione che ci siano ingiustizie sistemiche nella società Americana e che sia necessario affrontarle”. Se ci affidiamo a questa definizione tecnica, il woke non è altro che una presa di consapevolezza dell’esistenza della discriminazione.

      A monte di tutto questo, l’articolo non ambiva a ricostruire quanto accaduto, bensì si concentra sulla normalizzazione del doxing e dei suoi effetti (polarizzanti), sul mondo. Questo “giustizialismo” da tastiera mima quel genere di caccia alle streghe tipica della stampa di cronaca nera, spingendo le persone a pretendere conseguenze immediate per contesti che devono essere ancora giudicati. Ovviamente non si tratta di una situazione che tocca solamente la destra, anzi gli altri due casi che abbiamo citato possono essere abbinati a dimensioni di sinistra. In questo caso specifico, però, l’aggravante è che non si dia la caccia al sospettato, ma a persone che esprimono delle opinioni (alcune anche quando molto blande).

  3. Con questo articolo vi siete apertamente schierati e, neanche tanto velatamente, state giustificando l’accaduto.
    Le avvisaglie in questo ultimo anno erano tante, soprattutto da quando Trump è diventato presidente. Non riuscite proprio a digerire che i dem e tutta la loro macchina propagandistica stanno perdendo potere a livello globale. Infinita tristezza per un’esperienza editoriale che ho appoggiato dal primo minuto.

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