sabato 13 Settembre 2025

La rappresentazione della cultura indigena nel cinema: intervista ad Alessandro Martire

Alessandro Martire è fondatore e presidente della ONG Wambli Gleska, unico soggetto ufficialmente autorizzato in Italia a rappresentare il popolo Lakota Sicangu di Rosebud. Dal 1995, l’organizzazione diffonde cultura e tradizioni del popolo Lakota, oltre a promuoverne riconoscimenti e rapporti internazionali e salvaguardare i diritti umani della Nazione Lakota Sioux. Per le sue profonde conoscenze in questo ambito, Martire è stato scelto per fare da consulente (e recitare una piccola parte) durante la realizzazione del western all’italiana Testa o croce?, diretto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, presentato all’ultimo Festival di Cannes. Nell’intervista rilasciata a L’Indipendente, Martire spiega perché è fondamentale che le produzioni cinematografiche si affidino a consulenti tecnici esperti quando parlano di altre culture e altri popoli. 

Come mai è stato chiamato dalla produzione?

Il film nasce dalla volontà di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi di fare un western all’italiana, ma non uno spaghetti western. Racconta la storia vera dell’arrivo di Buffalo Bill nel 1905 in Italia e della sfida tra i butteri della Maremma e i cowboy che erano al seguito del Wild West Show, lo spettacolo di Buffalo Bill – nel quale i butteri avranno la meglio. Nello specifico, il film racconta la storia del buttero Santino, il quale si innamora di Rosa, moglie di un signorotto locale. Santino sarà accusato dell’omicidio del marito della donna: i due decidono di scappare insieme per coronare il loro amore, ma una taglia viene posta sulla loro testa. Il Wild West Show era caratterizzato dalla presenza dei Lakota Sioux che viaggiavano insieme a Buffalo Bill (ovvero il colonnello William Frederick Cody). Io sono stato chiamato, insieme a Sergio Susani, per dare una consulenza storico-scientifica, affinché le scene fossero il più fedeli possibile alla realtà. Abbiamo collaborato nella realizzazione dei costumi di scena per 29 attori e abbiamo fornito noi stessi dei pezzi della nostra collezione di manufatti nativo-americani. La consulenza ha riguardato poi il trucco di attori e comparse così come quello dei cavalli. Questi ultimi li abbiamo truccati personalmente io e Sergio Susani. Le pitture che i Lakota, così come altri popoli nativi, facevano su se stessi e sui cavalli erano simboli che evocavano forze e spiriti particolari per affrontare la situazione a cui si andava incontro. Stessa cosa abbiamo fatto per la lingua Lakota.

Come è accaduto che da consulente ha poi avuto anche una parte nel film?

Durante le riprese del film, nel momento in cui, storicamente, Buffalo Bill inscena l’uccisione di Yellow Hand e gli leva lo scalpo, mancava una parte storica e linguistica molto poco conosciuta da chi non è esperto di storia e cultura nativo-americana. Robert Alan Packard, Lakota Yankton che nel film interpreta Yellow Hand ma che vive a Berlino ormai da 40 anni, ha dimenticato il Lakota. Così, in quel momento sono intervenuto per dare la mia consulenza e mi sono ritrovato sulla scena, dando un ulteriore contributo al film anche in veste di attore. 

Perché è importante che le produzioni cinematografiche abbiano consulenze tecniche, specie quando si parla di altre culture e popoli? Nel caso dei popoli nativi, nel mondo cinematografico, specie quello statunitense, è sempre stato fatto oppure no?

Credo che sia una cosa molto importante perché anche le grosse produzioni cinematografiche, quelle con alti budget, devono ricorrere a esperti del settore o rappresentanti di quei popoli se vogliono creare qualcosa di buono. Altrimenti non sono in grado di rappresentare fedelmente la realtà. Nessuno della grande squadra di truccatori sapeva come dovevano essere dipinti i volti dei personaggi nativi. Figurarsi i cavalli. Se il cinema vuole produrre qualcosa di quanto più veritiero possibile, deve rivolgersi a consulenti tecnici esperti in quella materia specifica.

E così abbiamo fatto disegnare i volti degli attori e i corpi dei cavalli, secondo la tradizione, la conoscenza e la spiritualità Lakota. Stessa cosa per le acconciature dei capelli. I nativi, infatti, non portavano semplicemente delle trecce: nella loro cultura i capelli erano considerati importanti perché estensione materiale dello spirito. Per quanto riguarda l’acconciatura in sé, i capelli non venivano semplicemente intrecciati tra loro, ma veniva messo anche del cotone rosso che si intrecciava al capello.

Purtroppo, gli stessi Lakota hanno perso la conoscenza della propria cultura, usanze, tradizioni e lingua. Sadie La Pointe, la ragazza Lakota che viene dalla riserva di Rosebud, che noi rappresentiamo, non sapeva come indossare un manufatto e, anziché metterlo al collo, lo ha messo in fronte. È la conferma degli effetti delle conseguenze di secoli di sterminio culturale silenzioso, dopo quello fisico. Io e Sergio Susani abbiamo fatto del nostro meglio nei giorni di permanenza a Roma per le riprese iniziali del film. No, le consulenze non sono sempre esistite nel mondo cinematografico. Per i popoli nativi americani le cose sono cambiate solo a partire dagli anni Settanta. Prima, la loro rappresentazione era affidata a persone che non ne sapevano proprio niente.

Per molto tempo è infatti esistita una certa produzione cinematografica, molto propagandistica, che ha dato un’immagine negativa di queste popolazioni.  

Sì certo. La filmografia americana ha passato un periodo storico importante con John Ford regista e John Wayne attore protagonista di tantissimi film western come Ombre rosse. In questi film, i nativi erano sempre i cattivi e, ovviamente, John Wayne era l’incarnazione del prototipo di eroe americano che sconfiggeva e civilizzava il West selvaggio. Con un colpo del suo Winchester i cattivi pellerossa cadevano sempre sconfitti. Era l’impronta colonizzatrice travestita da gesta eroiche. 

Le cose cambiarono a partire dagli anni Settanta, anni di lotte e rivendicazioni importanti. In quel decennio hanno visto la luce tre film importanti: Un uomo chiamato cavallo, Piccolo grande uomo, Soldato blu.

Con il primo film, la figura del nativo americano venne riscattata e capovolta. Per la prima volta viene posta grande attenzione ai dialoghi. Con Soldato blu viene presentato il massacro di Sand Creek, raccontato poi anche da De André nella canzone che prende il nome dal luogo dell’eccidio del 1864.

Da ricordare l’episodio del 1973 con protagonista Marlon Brando, che si rifiutò di ritirare il premio Oscar per recarsi a Wounded Knee dove era in corso una grande rivolta Lakota, la quale sarebbe poi finita in tragedia. Sul palco di Los Angeles alla consegna degli Oscar, Brando mandò al suo posto Shalin Blackfeather. Ella, che, in costume tradizionale, lesse il messaggio in cui spiegò le motivazioni per cui Brando non si era presentato a Hollywood. Tra le motivazioni anche la rappresentazione cinematografica, negativa e falsificata, delle popolazioni native. Da quegli anni in poi è stato un crescendo di pubblicazioni filmografiche sempre più accurate e dettagliate, arrivando agli anni Novanta con capolavori come Balla coi lupi.

Esistono produzioni indipendenti, o che comunque non arrivano al nostro pubblico, che raccontano le verità tragiche circa la condizione attuale e storica dei popoli nativi?

Sì, ce ne sono. Uno di questi lo proietteremo al Wolakota di questo anno, che si terrà a Fiesole, vicino a Firenze, tra settembre e ottobre. Il film si chiama Verità nascoste, di Georgina Lightning, ma il titolo originale è Older than America. Si tratta di una denuncia aperta all’annoso e tragico problema delle boarding school americane, potente al punto che questo film non è mai arrivato in Italia prima di ora. Forse questo è avvenuto anche per motivi legati ai rapporti tra Italia e Vaticano e la presenza della Santa Sede. 

Si tratta di un film di tutto riguardo, con attori come West Studi e Adam Beach, dove si parla di quello che veramente è accaduto nel sud del Canada e negli Stati Uniti all’interno di quegli istituti per bambini e ragazzini che venivano strappati alle proprie famiglie. Questo è importante perché, al di là del film che racconta una verità mai vista dai nostri amanti del cinema italiano, Wambli Gleska ha partecipato attraverso la mia persona al sinodo papale Laudato si indetto da papa Francesco nel 2019. Con me c’era l’allora presidente Lakota di Rosebud, Rodney Bordeaux, con cui siamo stati accolti dal papa. Fu dopo quel sinodo che Francesco volle andare in Canada per chiedere scusa per gli orrori commessi nelle boarding school. E il film che proietteremo al Wolakota parla proprio di quelle storie di abusi e violenze a cui anche la Chiesa ha partecipato in maniera attiva.

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Michele Manfrin

Laureato in Relazioni Internazionali e Sociologia, ha conseguito a Firenze il master Futuro Vegetale: piante, innovazione sociale e progetto. Consigliere e docente della ONG Wambli Gleska, che rappresenta ufficialmente in Italia e in Europa le tribù native americane Lakota Sicangu e Oglala.

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