Roma, 18 aprile 1938. Ugo Cerletti, psichiatra e neurologo, insieme al suo assistente Lucio Bini, riesce per la prima volta a provocare una crisi epilettica mediante la corrente elettrica su un uomo arrestato dalla polizia perché si aggirava sul treno senza biglietto. È lo stesso Cerletti a ricordare che, dopo avergli applicato due grandi elettrodi alla regione fronto-parietale e così avergli somministrato una scarica elettrica, l’uomo dice: «Non un’altra volta! È terribile». La richiesta non viene accolta e l’esperimento prosegue. È da questo episodio che prende piede nell’ambito psichiatrico l’elettroshock terapia, ora chiamata, nel tentativo di ammorbidire l’immaginario, terapia elettro convulsivante (TEC), che consiste nell’induzione di convulsioni nel paziente mediante passaggio di una corrente elettrica attraverso il cervello. Oggi in Italia è eseguita in almeno otto strutture sanitarie, sei pubbliche e due private accreditate. Una realtà poco nota e con ampi profili di discrezione e non del tutto chiari.
La TEC è proposta soprattutto nei casi di grave depressione, alcuni quadri maniacali, catatonia acuta e schizofrenia resistenti ai farmaci, ma non solo. Piero Cipriano, psichiatra di Roma e autore di diversi libri sulla salute mentale, ha spiegato a L’Indipendente che l’elettroshock è un’opzione proposta anche alle donne incinte impossibilitate ad assumere farmaci. Sebbene siano presenti molte ricerche pubblicate nella letteratura scientifica, non sono mai stati stabiliti con certezza i meccanismi di azione che determinano il risultato terapeutico della TEC, anche se Cipriano una risposta ce l’ha data. Uno degli effetti collaterali dell’elettroshock è la perdita temporanea della memoria a breve termine, controindicazione che porta con sé un apparente beneficio: con lo svanimento dei ricordi si possono affievolire anche i sintomi della depressione, ma appena la memoria torna, spariscono gli effetti positivi. Tesi avallata anche da una delle testimonianze raccolte nel libro Elettroshock del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud: «Come prima istanza mi fecero l’elettroshock per farmi dimenticare quello che avevo di rabbia dentro».
Da quel giorno di aprile del ’38 bisogna aspettare il finire degli anni ’50 per vedere diminuire l’uso dell’elettroshock, anche grazie all’introduzione di nuove e migliorate molecole farmacologiche. Con la chiusura dei manicomi, la TEC diventa un trattamento residuale, ma a metà degli anni ’80 subisce una nuova espansione prima negli Stati Uniti e poi anche, seppur in maniera molto più ridotta, in Italia. Nel 1996, Rosy Bindi, allora ministra della Salute, emette una direttiva ministeriale in cui viene rivalutata la terapia elettro convulsivante. La circolare, presentata in seguito al parere positivo del Comitato nazionale di bioetica, mira ad aggiornare e revisionare le linee guida sull’uso del trattamento. Questa ripresa si fa sentire anche nel decennio successivo quando, nell’ambito della Società italiana di psicopatologia, un gruppo di psichiatri fa girare una petizione indirizzata alla ministra della Salute Livia Turco per sdoganare l’elettroshock. Sebbene in Italia l’elettroshock sia una pratica tutto sommato poco usata, il dibattito intorno a esso è stato ridotto alle linee guida per l’utilizzo e confinato nei soli ambiti medici e politici, una scelta discutibile se si pensa che si tratta dell’unico trattamento che prevede una grave crisi organica dei pazienti indotta a scopo di “cura”.
Una pillola per tutto

Lo studio e la classificazione dei disturbi mentali si basa sul Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) dell’American Psychiatric Association e sull’International Classification Diseases (ICD) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nella quinta e ultima edizione del DSM sono classificati 370 disturbi mentali, numero tre volte maggiore rispetto alla prima edizione. Sebbene non direttamente redatto da case farmaceutiche, queste contribuiscono significativamente allo sviluppo e alla revisione del DSM: una parte consistente dei membri della commissione ha legami finanziari con l’industria farmaceutica, un conflitto d’interessi che contribuisce ad abbassare le soglie diagnostiche e, di conseguenza, aumentare il numero delle malattie e prescrivere più farmaci. Un esempio concreto di cosa significa questa relazione si può constatare osservando in che modo si sono ristretti i tempi per dichiarare una persona depressa. Nel DSM-III del 1989 se la tristezza superava l’anno, si parlava di depressione; nel DSM-IV del 1994 la tristezza doveva protrarsi per tre mesi; nel DSM-5 del 2013 il tempo necessario per dichiarare un fenomeno depressivo si è ridotto a due settimane.
Per quanto riguarda l’Italia, negli ultimi dieci anni il consumo di psicofarmaci ha subìto un progressivo aumento. L’anno che ha rappresentato il picco è stato il 2020: a seguito dell’emergenza Covid, i consumi tra la popolazione adulta e quella pediatrica hanno toccato livelli che non sono più tornati ai valori pre-pandemici. Per dare forma a queste informazioni, basti pensare che nel 2021 circa il 7% della popolazione italiana ha utilizzato antidepressivi. Nel 2023 questa tipologia di psicofarmaci è arrivata a registrare una spesa pubblica di oltre 432 milioni di euro (1,7% sul totale) con un numero di confezioni pari a quasi 38 milioni che equivale a 47 pillole al giorno ogni mille abitanti. Gli antidepressivi insieme alle benzodiazepine (ansiolitici) sono due tra gli psicofarmaci più utilizzati. Come denunciato da Cipriano, si assiste a una generale superficialità delle prescrizioni: in particolare per quanto riguarda le benzodiazepine vengono prescritte da medici di base e specialisti per le condizioni più varie tra cui stress o somatizzazioni, senza avvertire il paziente che il loro uso deve essere scalato e sospeso dopo qualche settimana a causa della rapidità con cui creano dipendenza. Può succedere dunque che per un mal di stomaco psicosomatico venga consigliato da un medico di base o da un gastroenterologo il consumo di ansiolitici, un approccio che non prevede l’ascolto ma la caccia alla diagnosi.
La ricerca di un giudizio clinico è una tendenza che abbraccia anche i più giovani. Secondo i dati ISTAT, nell’ultimo decennio, le certificazioni in ambito scolastico sono aumentate del 39,9% a fronte di una generale diminuzione di studenti, mentre per l’Associazione italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza circa 2 milioni di minori soffrono di disturbi mentali. Questo fenomeno dovrebbe spingerci a interrogarci su due aspetti: se da una parte esiste una tendenza a cercare cause neuropsichiatriche per ogni difficoltà, dall’altra si sta assistendo a un generale malessere. Interrogato sull’argomento, Cipriano trova una risposta sull’insicurezza nei confronti del futuro con cui i giovani devono fare i conti. La precarietà personale – la fine del percorso “obbligato” studio, lavoro, casa, famiglia ha restituito maggiore libertà da dover gestire – insieme a quella mondiale – come la costante minaccia di una guerra nucleare – generano un malessere esistenziale le cui cause devono essere trovate non tanto nel cervello dei giovani quanto nella società. Di simile avviso è anche il collettivo Artaud che ha ribadito a L’Indipendente come oramai ci sia una pillola per tutto: in una società performante come la nostra sembra non esserci spazio per chi esce dalla “norma”.
Psichiatrizzati a vita
Uno degli aspetti più critici di come è gestita la salute mentale è la difficoltà di uscire dal sistema una volta che si è psichiatrizzati. Dopo le dimissioni dal Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC) – cioè i reparti presenti negli ospedali –, si viene seguiti dal Centro di Salute Mentale (CSM) per la somministrazione dei farmaci prescritti, medicinali che in molti casi vengono assunti per interi decenni se non il resto della vita. Come denunciato dal collettivo Artaud, nell’ambito della sanità pubblica è difficile trovare uno psichiatra intenzionato a scalare i farmaci portando l’utente verso la fine dell’obbligo terapeutico. Il ricorso a uno psichiatra privato è una possibilità ma non è sempre facile trovarne uno disposto a prendere in carico la persona in modo da sollevarla dall’obbligo di andare al CSM. Questa opzione, inoltre, porta con sé la questione economica. Il binomio condizione economica-cura non è sfuggito nemmeno a Piero Cipriano quando, nel suo La fabbrica della cura mentale, scrive: «Molti medici della mente continuano a usare, nella loro pratica, due misure, come facevano i loro colleghi di manicomio: la cura violenta, basata su farmaci e fasce, in SPDC e la cura tranquilla, argomentata, spiegata, nel silenzio costoso del proprio studio privato».
Come abbiamo appena visto, essere seguiti dal CSM significa anche essere costretti a prendere una terapia farmacologica, in caso contrario le opzioni sono generalmente due: l’iniezione dello psicofarmaco a rilascio prolungato che assicura una copertura per diverse settimane o il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) con il quale una persona è sottoposta a cure mediche a prescindere dalla sua volontà. In Italia vengono fatti circa 6000 TSO all’anno, ma è difficile ottenere dati precisi. Spesso i ricoveri volontari proseguono oltre l’intenzione del paziente con la minaccia di un TSO: il numero a nostra disposizione non include tutti i TSO mascherati. Oltre a essere l’unica disciplina medica che può obbligare alla cura, la psichiatria è anche la pratica che più attribuisce uno stigma. Con la psichiatrizzazione le persone rischiano di perdere credibilità e per questo motivo possono essere messe sempre in discussione. Nella pratica, significa che se una persona in precedenza ricoverata in SPDC va in ospedale perché le fa male la gamba rischia di essere prima visitata da uno psichiatra per capire la sua attendibilità.

Quello di “malato mentale” è un marchio che può persistere per una vita intera e di questo ne sanno qualcosa gli utenti della Residenza sanitaria assistenziale Pandolfi di Pergine Valsugana (TN). Sorta in alcuni degli spazi dell’ex manicomio, è una RSA a esaurimento il che significa che una volta deceduto un utente il suo posto non viene occupato da un’altra persona. Un sanitario della RSA Pandolfi ci ha raccontato che i pazienti presenti – in totale ventidue – sono tutti ex ricoverati del manicomio i quali, dopo la chiusura definitiva dell’ospedale psichiatrico nel 2002, non hanno abbandonato la struttura. Si tratta dunque di persone che da oltre vent’anni vivono rinchiuse in quattro mura e gestite come pazienti psichiatrici, una situazione che, inevitabilmente, degrada la salute. È lo stesso sanitario a dirci che secondo lui, se non vissuti in quella condizione, alcuni degli utenti avrebbero potuto condurre una esistenza “normale”. Che quella dei “malati mentali” sia una vita considerata non degna di essere vissuta ce lo ricorda anche la storia. Il programma nazista “Aktion 4”, che prevedeva lo sterminio di malati tedeschi considerati improduttivi e dunque sacrificabili, coinvolse anche i ricoverati degli istituti psichiatrici su cui il governo di Hitler sperimentò per la prima volta le camere a gas poi usate nei campi di concentramento.




