20 gennaio 2024, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, intervistato dal Resto del Carlino, dichiara: «L’Italia ha interrotto dall’inizio della guerra di Gaza l’invio di qualsiasi tipo di armi a Israele. È tutto bloccato». 15 ottobre 2024, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in un dibattito al Senato, ribadisce: «Dopo l’avvio delle operazioni a Gaza il governo ha sospeso immediatamente ogni nuova licenza di esportazione — aggiungendo — la posizione italiana del blocco completo di tutte le nuove licenze è molto più restrittiva di quella applicata dai nostri partner, Francia, Germania, Regno Unito: noi abbiamo bloccato tutto». Eppure i fatti raccontano un’altra storia.
30 giugno 2025. La nave New Zealand della compagnia israeliana Zim, in barba alle disposizioni governative, attracca al porto di Ravenna. Non scarica merce: la carica. Munizioni, esplosivi e materiale bellico partiti dalla Repubblica Ceca e destinati a Haifa, dove arrivano puntualmente il 4 luglio. «Siamo stati avvisati da un operaio che lavora nella logistica del porto, che ha notato che i container caricati sulla nave avevano l’etichetta “esplosivi classe 1.4”, vale a dire munizioni» ha spiegato a L’Indipendente Carlo Tombola di Weapon Watch, l’osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei.
Quello di Ravenna non è un caso isolato e non è l’unico in Italia, ma la vicenda del porto romagnolo è esemplare delle modalità con cui armi ed esplosivi continuano a muoversi verso Israele, a volte in transito da altri Paesi, altre volte direttamente prodotti in Italia sulla base di autorizzazioni rilasciate prima del 7 ottobre 2023. «Ci eravamo già occupati di Ravenna — continua Tombola — dopo il 7 ottobre avevamo chiesto all’allora presidente dell’autorità portuale Daniele Rossi del transito di armi dirette a Israele. Rossi rispose con una lettera nella quale condannava la strage di Hamas e affermava che, per quanto ne sapesse, non c’era materiale bellico che partiva da Ravenna e che, in caso contrario, se ne sarebbe dovuta occupare la magistratura.»
E la magistratura, effettivamente, se ne è occupata.
A febbraio di quest’anno è stato scoperto un carico di oltre 14 tonnellate di componenti in metallo diretti a Israele in partenza da Ravenna. Sulla carta figuravano come manovelle, lamiere, bracci e cilindri, ma in realtà erano componenti bellici. «Anche questa volta se ne sono accorti gli operai — spiega Tombola — e non è stato neanche troppo difficile, visto che il destinatario era IMI, acronimo di Israel Military Industries.» Ciononostante, prima della denuncia, erano già partiti almeno tre carichi: «In pratica c’era questa piccola ditta di Lecco, la Valforge, che faceva da intermediaria per una grande fabbrica di Varese, la Riganti, e spediva i carichi facendoli passare per materiale civile mentre invece erano ad uso militare».
Dalla ricostruzione emergono due pratiche ricorrenti: la prima è camuffare componenti bellici da materiale civile. La seconda riguarda armi prive di autorizzazione che transitano attraverso l’UE: nel caso del 30 giugno le munizioni provenivano dalla Repubblica Ceca e avrebbero dovuto viaggiare in ambito intra-UE, quindi senza necessità di autorizzazioni nazionali, ma poiché la destinazione finale era Israele l’ufficio doganale italiano avrebbe dovuto bloccarne il passaggio, cosa avvenuta solo grazie alla segnalazione dei portuali.
In molti casi, tuttavia, non c’è bisogno di alcun trucco per aggirare i limiti imposti dal governo italiano. Il punto centrale è la differenza tra nuove licenze e licenze già attive. Le dichiarazioni del governo parlano infatti di «sospensione delle nuove autorizzazioni», ma non annullano quelle concesse in passato. In base alla legge 185/90, che regola l’export militare italiano, i contratti già firmati e finanziati dalle imprese della difesa possono continuare a essere eseguiti, salvo un esplicito stop politico. Uno stop che, ad oggi, non è mai arrivato.
Secondo la Relazione annuale dell’UAMA 2024, analizzata dal sito Altraeconomia, l’Italia ha autorizzato esportazioni militari verso Israele per circa 21 milioni di euro. Tra i principali fornitori figurano Leonardo, che ha inviato sistemi avionici ed elettronici, e Fincantieri, coinvolta in forniture per il settore navale e difensivo.
Le associazioni che monitorano il commercio di armi sottolineano una contraddizione: mentre le autorità italiane proclamano un blocco totale, in realtà le forniture continuano. A Ravenna, come nei porti di La Spezia, Genova e Livorno. «A La Spezia c’è la fabbrica di Leonardo che produce cannoni navali e molto altro, Genova è il principale porto italiano, ideale per far passare la merce con maggiore discrezione, mentre Livorno ha a due passi la più grande base americana in Italia, Camp Darby.»
Dopo la scoperta delle armi non autorizzate in partenza da Ravenna è partito il consueto scaricabarile delle responsabilità: il sindaco Alessandro Barattoni ha puntato il dito contro il Ministero dei Trasporti, Salvini ha dichiarato che chi doveva vigilare era l’autorità portuale e quest’ultima ha indicato l’Agenzia delle dogane, ultimo anello della catena in quanto non era possibile evocare il gatto che si mangiò il topo. «La responsabilità è di tutti — continua Tombola — a cominciare dalle dogane, attraverso le quali passano tutti i documenti, fino al Comune e alla Regione che sono i proprietari del porto. È il motivo per cui il 16 settembre ci sarà una manifestazione di protesta a Ravenna, lo stesso giorno in cui nel porto si terrà un incontro a porte chiuse con i rappresentanti del Ministero della Difesa di Israele, accusato di crimini contro l’umanità, e con l’azienda di armamenti Rafael.» La contraddizione, insomma, resta aperta: da un lato la politica annuncia il blocco, dall’altro la realtà dei moli racconta di un traffico che continua.